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03/05/24 ore

Ipocrisie sugli immigrati, qualche dubbio sulle tesi di Panebianco



Sul Corriere della Sera del 13 gennaio è apparso un editoriale a firma del prof. Panebianco a titolo “Troppe ipocrisie sugli immigrati” nel quale si coglie l’occasione delle proposte del segretario del PD sul tema per aprire un dibattito sulle scelte di politica immigratoria del Paese.

 

L’articolo ha il merito di portare una critica all’incoerenza delle politiche elaborate fino ad oggi che non fatto altro che ondeggiare fra l’accoglienza e la convenienza senza essere mai state capaci di decidere una linea chiara e praticabile. Tuttavia desidero presentare alcune critiche alle tesi sostenute nell’articolo del prof. Panebianco.

 

In primo luogo, con il termine immigrati si cerca di descrivere una serie di fenomeni molto diversi tra loro che meritano, invece, una maggiore definizione e distinzione proprio per poter elaborare politiche efficaci. Ad esempio una buona parte dei migranti sono rifugiati, ovvero persone che fuggono da contesti di conflitto violento per mettere in salvo la loro vita.

 

La tutela di queste persone e l’accoglienza sono un obbligo imposto dalle convenzioni internazionali sul quale spero nessuno, immagino neanche il prof. Panebianco, voglia tornare a discutere. Dubito che le proposte di selezione per convenienza possano applicarsi a queste persone.

 

In secondo luogo, si può anche immaginare una politica che cerchi di favorire una “buona” immigrazione e di sfavorirne una “cattiva”. Ma dubito che il criterio possa essere quello della provenienza o dell’appartenenza a determinati gruppi etnici. Forse il criterio per discriminare dovrebbe essere il crimine.

 

Non è vero che “tutti gli immigrati” sono criminali come molti sostengono . Ma è vero il contrario. Molti criminali sono immigrati nel nostro paese. Le ragioni sono evidenti. Un sistema giudiziario debole e lento. L’interesse della malavita italiana di reperire manodopera. L’interesse dei paesi di origine di svuotare le loro carceri fuori dai confini nazionali. Forse su questo versante si potrebbe aprire una riflessione seria che non si limiti a sollevare stereotipi.

 

In terzo luogo, sono molto perplesso sulle capacità di uno Stato di controllare i flussi migratori. Gli Stati uniti hanno una legislazione molto severa sull’immigrazione e questo non ha impedito il flusso migratorio proveniente dal Messico nonostante i massicci sforzi di controllo delle frontiere. Dubito che uno Stato possa bloccare un flusso di milioni di persone in movimento che scappano o dalla miseria o dalla morte violenta.

 

L’unica politica che mi viene in mente è lo sterminio, ma immagino che nessuno possa proporre una cosa di questo tipo e sono certo che il prof. Panebianco non pensi una cosa del genere. Forse non si può bloccare un flusso migratorio ma si può cercare di trarne i maggiori benefici e ridurne il più possibile i costi.

 

Infine, ho delle perplessità sulla possibilità di poter determinare così facilmente le competenze di cui un Paese può aver bisogno, poterle identificare ed “importare”. In genere gli esseri umani sono portatori di un insieme di competenze e capacità non sempre facilmente determinabili ed identificabili. Tali capacità possono essere messe a frutto dalle persone in modi imprevedibili per arricchire se stessi e la comunità di cui fanno parte.

 

Non mi sembra possibile ne auspicabile che si possa decidere di governare i flussi migratori stabilendo delle tabelle di competenze da importare. Penso, al contrario, che ci sarebbe molto da discutere sulle politiche fatte per valorizzare le capacità degli immigrati, per favorire un senso di appartenenza alla comunità e per far emergere quel senso di responsabilità e tolleranza che può disinnescare possibili conflitti.

 

Concludendo, se lo scopo dell’editoriale era quello di aprire un dibattito, credo che l’obiettivo sia stato raggiunto. Ma dubito, per i motivi che ho sopra elencato, che sia conveniente impostare il dibattito seguendo i suggerimenti del prof. Panebianco.

 


Zeno Gobetti


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