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02/12/24 ore

Il poeta e il combattente, di Joseph Harmatz (Rubettino editore)


  • Elena Lattes

Nel giugno 1994, esattamente 53 anni dopo l’invasione nazista dell’Unione Sovietica, Joseph Harmatz partì da Israele con il figlio più giovane, Ronny, in direzione di Mosca.

 

Nato in Lituania nel 1925, già braccio destro e amico di Abba Kovner, capo della resistenza locale, dopo la guerra emigrò in Israele dove continuò a combattere in difesa del Paese e diventò un famoso poeta.

 

A sessantanove anni, dunque, una volta in pensione (lavorò per l’Agenzia ebraica per salvare le comunità ancora in pericolo nel mondo arabo e nell’Europa orientale e per la Ort, la scuola di avviamento professionale che aiutava i giovani ebrei in gran parte del mondo a prepararsi per un mestiere) compì un viaggio a ritroso. 

 

Ne scrisse poi un diario, o forse meglio, un’autobiografia, nel quale raccontò la storia sua, della sua famiglia, dei suoi compagni di lotta, della vita (e della morte) sotto il nazismo, delle rocambolesche avventure per sopravvivere e raggiungere quell’agognata terra allora sotto Mandato Britannico e che sarebbe poi diventata il moderno Stato di Israele. Il tutto inframezzato da flash sui momenti del viaggio, sugli incontri effettuati, sulla reazione del figlio e del rapporto fra i due.

 

Questo, che poi è diventato un libro, è stato successivamente tradotto da Anna Rolli (che ne ha anche curato la versione italiana) e pubblicato dalla casa editrice Rubettino con il titolo: “Il poeta e il combattente”.

 

Sulla Shoà numerosi sono i resoconti (e perfino tante storie romanzate), ma il contributo di Harmatz ha una valenza particolare e fondamentale allo stesso tempo: è la testimonianza di un (ex) giovane che ha combattuto nel ghetto di Vilna e poi nelle foreste circostanti insieme a diversi gruppi partigiani; suo fratello, arruolatosi nell’Armata rossa, cadde in un’aspra battaglia e il resto della sua famiglia, con l’unica eccezione della mamma (sopravvissuta ai campi di sterminio), fu annientata dai nazisti. 

 

Ancora oggi troppo spesso si sente porre la domanda sul perché gli ebrei non si difesero dalla furia nazista. Ecco, leggendo queste pagine si può toccare con mano che invece la resistenza e la lotta armata (con mezzi di fortuna e con tutto ciò che ci si poteva procurare) non sono mai mancate. 

 

Non ci furono solo la rivolta del ghetto di Varsavia o quella del campo di concentramento di Sobibor (per citare le più famose), ma in tutta l’Europa dell’Est e, se pensiamo ai partigiani italiani e francesi o anche ai tanti volontari negli eserciti alleati si potrebbe dire in tutto il nostro Continente, gli ebrei, senza distinzione di sesso o di età, fecero di tutto, ognuno a modo suo e come poteva, per contrastare i massacri e le deportazioni.

 

Spesso, tuttavia, furono costretti a scontrarsi non soltanto con l’esercito tedesco e con i suoi alleati, ma con gli stessi membri delle organizzazioni partigiane, altrettanto ferocemente antisemite

 

Dalle pagine di questo libro, dunque, si percepiscono la drammaticità degli eventi atroci e la solitudine che Harmatz (il cui nome di battaglia era Julek) e i suoi compagni dovettero affrontare, descritte con uno stile semplice e spontaneo, scevro di ogni retorica o prosopopea.

 

Il suo resoconto, inoltre, offre un quadro poco noto sia della febbrile attività volta a salvare il maggior numero possibile di vite umane, anche dopo la costituzione dello Stato di Israele, sia dell’austerità di quei tempi nel giovane Paese: 

 

“Mi ritrovai in un nuovo ambiente. Erano gli anni Cinquanta e il contrasto tra Tel Aviv, dove vigeva il razionamento, e il benessere e la stravaganza della Svizzera fu un vero shock.” o ancora: “In Marocco vivevano più o meno 350mila ebrei, molto meno in Tunisia e Algeria. Dopo un attacco del Fronte di Liberazione Nazionale, ferocemente antisemita, potemmo salvare, con l’aiuto dei paracadutisti francesi, più di mille fuggiaschi dal porto di Philippeville in Algeria.”. 

 

Un lavoro incessante e di estrema urgenza, quello di Hermatz e dei suoi colleghi, che ebbero spesso la prontezza di cogliere al volo i piccoli e sfuggenti spiragli di apertura di regimi totalitari o risultanti dalla transizione fra un’organizzazione o una forma politica e un’altra.

 

Ad integrazione della sua testimonianza, l’autore riporta anche ampli stralci di diari dei suoi compagni di lotta e qualche poesia di Abba Kovner

 

Concludono il volume una bella intervista, i proclami della resistenza diffusi nei ghetti e una profonda riflessione di Giuseppe Segre

 

 


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