17/07/25 ore

POESÌ di Rino Mele. La casa sul torrente



Sabato 3 maggio (venne Mario Martone a parlarne) e oggi sabato 31 maggio (Alfonso Amendola, Alfonso Conte, Pina De Luca, Emilio Giordano e Francesco Mancuso) il Comune di Sant'Arsenio, il paese in cui sono nato - nel fascinoso Vallo di Diano, nella Campania meridionale tra Cilento e Lucania - dedica due giorni alla mia poesia. Nella Braida, la grande piazza, sarà oggi pomeriggio piantato un albero per ricordare queste ore lucenti: leggerò questi 125 versi appena scritti. 

 

Il titolo è La casa sul torrente: la strada in cui sono nato la notte del 4 febbraio 1938 era, allora, un torrente dal letto di pietra. 

 

 


 

 

RINO MELE

 

 

La casa sul torrente

 

 

Sempre, il paese è un’astrazione, 

edificio infero

di cui vedi le stanze alte coi balconi, 

l’astrico, i tetti, i lacunari 

del cielo, 

l’alba delle finestredde, gli specchi 

che escono dal sonno:

negl’infiniti sotterranei, corridoi interrati, 

l’enigma di rustici ipogei, 

le madri scendevano a nascondere 

le lacrime. 

A Sant'Arsenio, d’inverno, le piogge 

diventavano lago 

e sul fango della mia torrenziale concava

strada 

i cavalli lasciavano i segni delle ruote 

nel sussultare a precipizio 

delle acque, quel perpetuo scivolare 

sulle pietre: 

il piccolo Acheronte che chiedevamo 

di attraversare quando le onde 

s’alzavano tra le case incastrate nel 

dirupo della via, 

dove perdevamo l’anima a correre. 

La mia casa è ancora lì sul torrente 

del Lavinaio, la strada dove sono nato

al numero 17: ne sento la voce 

muta nei canti delle bambine in cerchio, 

a rincorrersi, 

in un instancabile confronto: “Vieni vieni 

gioia / nu mazzo re viola / 

nu mazzo re petrosino / vieni 

vieni gioia mia”. Le piogge non finivano. 

Ma all’improvviso il fango 

si prosciugava e io correvo al confine

dell’orto, 

verso un contorto salice 

selvatico su cui salivo e, nell’incavo 

dei rami restavo per ore: 

lì ho vissuto in anticipo la mia vita, 

e non sarei dovuto scenderne mai più. 

Al centro, tra le case verso 

la montagna e le casedde nella pianura, 

l’immensa Braida, 

i morti camminavano tra i vivi, 

e non morivano mai: poi apparivano,

figure di silenzio, all'Ossario, 

teste e tibie, femori feriti 

e, sovrapposti, altri crani con orbite 

aperte su smemorate visioni. 

Al mio paese il sonno 

era come una fune: ci s’aggrappava 

nel buio delle scale. “Nu capo re suonno” 

supplicava, negli scrosci interminabili 

di pioggia, 

la voce chiusa nel dolore: sentiva 

il torrente del Lavinaio diruparsi, 

portare con sé tronchi 

e rami fino a liberarsene 

contro la parete del Limitone, il lungo sedile 

di pietra contro cui la strada d’acqua 

infrangeva 

la sua nuda tenebra. 

Dopo l’ultima guerra, il paese è cambiato, 

è diventato periferia 

d’una inesistente città sempre lontana: 

prima, era la visione capovolta 

delle sue case.

Le notti di guerra erano atroci: mia madre 

roteava piano 

un tizzone se camminavamo nella tenebra, 

in quel luccichio stellato vedevamo la notte, 

ci muovevamo nelle erbe 

bagnate 

dei sentieri dell’orto. 

Fino a metà del secolo scorso, 

a Sant’Arsenio 

era come se il paese contenesse un altro 

paese, più leggero: 

se qualcuno 

stava per morire, il paese ne era avvertito: 

suonava la campana dell’Agonia, 

un suono veloce, 

metallico: in quegli istanti per chi 

aveva messo il piede sul limite delle cose, 

la campana suonava in fretta: 

diceva - a lui morente - che moriva: 

lui sapeva 

di stare per salire un sentiero di terra 

nel quale precipitare: risaliva 

a stento prima di sotterrarvisi dentro. 

Passava di corsa un sacerdote chiuso 

in uno stretto manto, un piviale,

bianco e oro 

a nascondere la pisside con l’ostia, l’olio 

santo. I ragazzi si fermavano, 

smettevano di correre.

La guerra non finiva mai, in piazza 

un piccolo teatro mostrava a tutti 

quello che nessuno era: 

gli attori gridavano un finto 

dolore, si gettavano sulle tavole 

del palco, ne risorgevano tra gli applausi. 

La vita del paese 

era un continuo scavare solchi, 

gettarci la semenza, coprirli con la terra 

del colmo, maturando l’attesa. 

L'alta chiesa del Settecento

era fredda, cento anni fa i preti 

ancora andavano a caccia vestiti di verde, 

sparavano agli uccelli 

nel predicare il vangelo. Al centro, 

la Braida immensa 

era una foresta di platani, 

potevi viverci una vita, morirci e rinascere. 

Di notte, l’acquata lavava tutto, 

nei campi 

si specchiava la luna, 

si nascondeva nei canali, cantava 

nella voce delle madri. All’alba 

i contadini già lavoravano, 

pensavano ai volto di gesso dei padroni 

addormentati, senz'anima e, 

vangando 

il nero corpo tenace della terra, ridevano.

 

 

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Rino Mele (Premio Viareggio Poesia 2016, terna finale con “Un grano di morfina per Freud", ed. Manni) scrive, il venerdì e il martedì, su “Agenzia Radicale”. Dal 2009 dirige la Fondazione di Poesia e Storia. Il nome della rubrica è “Poesì”, come nel primo canto del “Purgatorio” Dante chiama la poesia.

 

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