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06/11/24 ore

Una perdita dolorosa, Silvio Pergameno è morto



La scomparsa di Silvio Pergameno, il 28 dicembre scorso, è stata una perdita dolorosa e ha lasciato una profonda tristezza nella nostra piccola comunità di Quaderni Radicali, di Agenzia Radicale, dell’Associazione Amici di Quaderni Radicali.

 

Non si tratta solo della assenza, che per una persona che non c’è più trova nel ricordo elementi di conforto, ma è la definitiva mancanza, nel fatto che nello sviluppo degli avvenimenti manchi qualcosa con cui confrontarsi, con cui condividere o verificare la giustezza di una scelta che provoca una acuta malinconia.

 

Nel pensiero culturale, politico, intellettuale è l’interruzione di un circuito che fornisce energia e da sbocchi positivi a scenari complicati e difficili.

 

Silvio è stato un leader, un uomo saggio, una guida che non amava manifestarsi all’esterno, senza mai atteggiamenti di presunzione, senza un briciolo di arroganza. Per molti di noi è stato un leader dell’anima, del cuore, un riferimento necessario di verifica nei comportamenti nella pur fragile dinamica di tutti i modi di essere delle donne e degli uomini. E ancor di più in questo tempo difficile che viviamo.

 

Quello che si è realizzato in più di 45 anni di collaborazione nasce proprio dalla sua natura ricca di rigore e attenzione alla vita degli altri, ai suoi ingredienti interiori che ne facevano una sponda di confronto forte, autorevole, integra, senza ipocrisie.

 

Cercheremo a breve di realizzare un numero speciale di Quaderni Radicali, la rivista a cui ha partecipato e collaborato da sempre. Un numero nel quale selezioneremo un parte della sua grande produzione di articoli (su QR e su Agenzia Radicale) e di interventi, con introduzioni o postfazioni, ai libri che abbiamo prodotto.

 

Quella che segue è la introduzione al libro-intervista “l’altro radicale” (Guida editore), di Giuseppe Rippa a cura di Luigi O. Rintallo.

 

 

 

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Introduzione 

di Silvio Pergameno

 

 (dal libro-intervista di Giuseppe Rippa a cura di Luigi O. Rintallo “l’altro radicale” (Guida editore)

 

 

Fornire delle indicazioni che facilitino la lettura di questo nuovo libro di Geppi Rippa (in collaborazione con Luigi O. Rintallo) può essere tanto inutile quanto problematico, nel senso che non si tratta di un testo difficile o, peggio, di per sé incomprensibile. Tutt’altro. 

 

Difficile è spiegare l’antefatto o, meglio, il sottofondo della narrazione. E credo che, a tal fine, abbia qualche pregio un’osservazione che può anche apparire banale, ma forse non lo è. Oggi è di moda affrettarsi nei tentativi di proliferazione delle repubbliche: prima repubblica, seconda repubblica, terza repubblica... Forse mostrare di esser altrettanto bravi dei francesi a disfare e rifare repubbliche può dare soddisfazione, ma in realtà fa nascere il sospetto che qualcuno possa riscontrare un certo deficit di novità.

 

Se i fatti dei primi anni ’90 hanno segnato la scomparsa della classe politica uscita dalla sconfitta del fascismo e che aveva radici nel percorso politico anteriore ad esso, tuttavia non si può non rilevare come la “Repubblica italiana” sia in buona sostanza rimasta la stessa, con la stessa Costituzione (e con le stesse interpretazioni), senza riuscire a innovare in maniera efficace e durevole nemmeno la legge elettorale. 

 

Viene cioè infatti da pensare che in realtà l’Italia, a distanza di un quarto di secolo dalla crisi esplosa nel 1992, non è riuscita ancora a produrre una nuova sistemazione, una vera nuova Repubblica. 

 

Anche l’Ulivo di Romano Prodi, poi evolutosi nel PD, con la raccolta di quanto restava del vecchio “regime dei partiti” (come si diceva noi radicali), non è riuscito a produrre una vera analisi critica del recente passato, né ha cercato di capire cosa era successo, quali erano stati gli errori e soprattutto cosa si fosse trascurato, perché i digiuni di Marco Pannella avessero aperto una crisi che poi si è venuta approfondendo, qual era stato il significato della vittoria del NO nei referendum abrogativi del divorzio e dell’interruzione della gravidanza e – prima ancora - della stessa approvazione delle relative leggi. Un disegno di legge istitutivo del divorzio (presentato dal socialista on. Sansone) giaceva da tempo in Parlamento.

 

Fu la nostra prima grande battaglia, prima di tutto di metodo e non sui massimi sistemi, muovendo dalla realtà, dai fatti, dai problemi aperti. Mentre invece la Sacra Rota faceva finta di salvare l’indissolubilità sostenendo che non scioglieva matrimoni, ma accertava e dichiarava la nullità per vizi di origine di un matrimonio inesistente, che non era mai venuto in essere.

 

Nel giro di pochi anni il ferro fu battuto mentre era caldo: fu approvata la legge sull’obiezione di coscienza e furono sistemati gli obiettori (compreso Rippa) che lo Stato non sapeva come collocare; fu riformato il diritto di fami- glia; fu dato il voto ai diciottenni; si ottenne la depenalizzazione dell’aborto perché questa era la battaglia radicale: l’aborto “reato” dava luogo all’aborto clandestino – praticato con mezzi primitivi (dai decotti di prezzemolo ai ferri per lavorare a maglia...) – che provocava il decesso di moltissime donne (per dire, l’informazione teneva conto solo dei rarissimi casi di aborti denunciati, per cui non avrebbe rappresentato un problema...).

 

Senza quindi entrare nel merito di tutte le infinite discussioni che circolavano da secoli (da quando Dio mette l’anima nel nascituro a quando un gruppo di cellule diventa un essere umano...), anche se tutti pensavamo che uno zi- gote non è un uomo... Tuttavia le ideologie dominanti non si dettero per vinte e si creò una sorta di aborto di Stato, con tante limitazioni, regole e problemi irrisolti. 

 

La battaglia, come si è detto, riguardava anche la sinistra, i comunisti, ma anche i socialisti. Certo, ormai il divorzio non era più un lusso borghese e, soprattutto, per effetto delle grandi migrazioni dal sud al nord d’Italia era diventato un problema di massa (calcolammo che gli interessati erano circa diciassette milioni). I nostri comizi nelle borgate registravano interventi di tanti che il problema lo viveva- no sulla loro pelle (la famiglia originaria ormai inesistente – non di rado da anni o da decenni – e quella nuova fuori legge), ma erano tanti quelli che capivano le battaglie radicali, anche se molti si sentivano legati alla vecchia unità di azione con il PCI, all’unità antifascista, all’“arco costituzionale”...

 

L’unità antifascista, comunque, necessita di qualche chiarimento, perché essa era nata durante la Resistenza, ed era rimasta un’eredità politico-morale diffusa nel centro nord (non era stata vissuta nel centro sud – ove il crollo del fascismo era rimasto legato al tradimento di Vittorio Emanuele III), ma la consuetudine al potere e l’assenza di una cultura liberale – soprattutto sotto il profilo del ruolo centrale e insostituibile, si direbbe sacro, delle istituzioni – ne avevano consentito l’evoluzione verso un ruolo totalmente diverso, di origine ideologica nettamente corporativa e spartitoria. 

 

La Costituzione al riguardo conteneva una disposizione nettamente contraria nell’art. 67, che stabilisce che ogni membro del Parlamento rappresenta la nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato. Ma mai disposizione è stata più ignorata di questa, a partire dalla legge elettorale proporzionale e dalle disposizioni sulla propaganda elettorale (che invece di garantire la famosa eguaglianza dei punti di partenza, hanno mirato ad assicurare la conservazione dello status quo), mentre i partiti e i governi erano sempre legatissimi alle segreterie delle formazioni politiche. Tant’è che quando doveva nascere un nuovo governo, il Presidente della Repubblica riceveva le delegazioni dei partiti. In realtà l’art. 92 della Costituzione fu il risultato delle preoccupazioni di garantire un governo più forte di quelli prefascisti e non volle affatto dar vita a un sistema “assemblearista”, vittima degli umori, dei trasformismi, dei litigi dei partiti proiettati in Parlamento, come si è detto.

 

Ma il partitismo ha trionfato, i parlamentari quando non se la sentono proprio di votare contro le indicazioni dei partiti chiedono umilmente alle segretarie il permesso di votare “secondo coscienza”. Quante volte è successo?

 

Si è arrivati così alla concezione del cosiddetto “arco costituzionale”, perché faceva riferimento ai partiti che avevano dato vita alla Costituzione, una formula in nessun modo codificata, ovviamente, ma che rappresentava in maniera compiuta un certo modo di fare (e di concepire) la politica. Ecco perché l’approvazione della legge sul divorzio fu un fatto dirompente: il “fronte” si era rotto su una questione essenziale per la DC, come la concezione della famiglia; e ancor più lo fu il NO all’abrogazione nel refe- rendum del 1974, che testimoniava l’esistenza di un’Italia diversa da quella tradizionalista (e così colpiva non solo la DC, ma anche le stesse premesse del dialogo con i cattolici di togliattiana memoria (Togliatti cercava “La via italiana” per il PCI in un fronte popolare, fondato su un blocco sto- rico delle forze popolari...).

 

Nel 1976 si arriverà sì al governo Andreotti III, detto di Unità Nazionale o della “non sfiducia”, sorretto dall’astensione comunista, si arriverà al “compromesso storico” di Berlinguer, ma rimasero eventi privi di conseguenze no- tevoli. Eugenio Scalfari (La sera andavamo in via Veneto, capitoli X e XI) li ricorda nella genesi dell’«Espresso» e di «Repubblica» proprio in contrasto con l’alterità radicale assai più pregnante, come lo fu rispetto al Partito liberale (che non era più cavouriano né crociano) e al Partito re- pubblicano (che non era più mazziniano). 

 

Era un’altra strada, quella convinta che in Italia si era costruita una vera democrazia, convinta che il problema fosse il PCI, al governo o fuori. Così in Germania l’unificazione tedesca, che per i socialdemocratici era possibile mettendosi d’accordo con la Repubblica Democratica Tedesca, come se questa non fosse un satellite dell’Unione Sovietica... e crollata questa, l’unificazione è subito arrivata; e da noi fu l’evoluzione del PCI in PDS e poi DS e poi l’unità della sinistra, compresa quella cattolica nel PD – figlio dell’Ulivo di Romano Prodi. 

 

Sullo scorcio degli anni ’70 poteva avviarsi un percorso verso un sistema politico di alternanza. Ma a ben vedere non ne esistevano i presupposti e così la crisi è rimasta insoluta e si è andati avanti alla meno peggio, fino al momento attuale, dopo trent’anni di riforme fallite, compresa l’ultima abrogata con il referendum del dicembre 2016. 

 

In realtà mancò l’idea di un nuovo partito, l’idea cioè del legame tra “contenuti” e “forma partito”. E quanto ai radicali, Pannella non voleva il partito, lo temeva per tutte le beghe interne, per la vocazione corporativa, per il limite che poteva rappresentare all’essenza radicale, fatta di battaglie “al fronte”, senza mediazioni, in cui la nonviolenza diventava mobilitazione nelle forme estreme del digiuno e più ancora dello sciopero della sete. Il partito però era indispensabile.

 

Nel 1967 ci eravamo dati un nuovo statuto per un partito “nuovo”: ci si iscriveva per effetto solo della presentazione della domanda, che andava presentata ogni anno, in quanto legata all’attivarsi per la realizzazione della battaglia, deliberata ai primi di novembre dal Congresso ordinario annuale; e il primo obbligo era quello del pagamento della tessera, che costava mille lire. Per molti un sacrificio; e quelli per i quali non lo era, lo stesso modo di essere e di operare del partito costringeva a contribuire per coprire le spese. Lo statuto non conteneva punizioni, probiviri, procedimenti, condanne, proprio perché libera associazione, libertaria e proprio per l’art. 49 della Costituzione (partiti di cittadini che si associano liberamente), gli eletti poi era- no subito fuori dal partito. E al partito potevano aderire intere associazioni, con versamento di un contributo da concordare e con il diritto di inviare propri rappresentanti al congresso. 

 

I “partiti regionali” erano veri partiti, non “sezioni o federazioni”, con il solo obbligo di attivarsi sulla mozione del congresso. Approvato lo statuto al congresso di Bologna del 1967, uscimmo dalla sala stanchi e contenti e il commento di Marco fu: “E adesso facciamone un bel manifesto!”. In realtà era mancata una riflessione di fondo nei lavori della commissione dei “12”, che aveva lavorato sei-sette mesi per redigere il nuovo statuto. Nel 1967 era comprensibile, perché avevamo di fronte un mondo... da cambiare.

 

Dieci o quindici anni dopo era diverso; il partito, proprio perché era diventato il partito dei referendum, avrebbe dovuto porsi il problema di nutrire i cittadini di informazione e di analisi, di discussione proprio perché la democrazia italiana era molto problematica, molto discutibile; e per i patiti regionali l’informazione sui problemi del territorio era una vera missione. E al centro sarebbe stato necessario creare dei centri di analisi dei grandi problemi politici, economici, istituzionali. Lo aveva capito Rippa e nacque infatti «Quaderni Radicali», con uno sforzo che dura tuttora. Un partito avrebbe potuto dare molto di più... 

 

 

 

 


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