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12/10/24 ore

Sulla pretesa di certificazione antifascista in occasione del 25 aprile



 di Enrico Seta

 

La pretesa di ottenere da tutti i rappresentanti delle istituzioni una esplicita e letterale dichiarazione di antifascismo, da ultimo avanzata dallo scrittore Antonio Scurati nei confronti della premier Meloni, riveste un evidente carattere illiberale e intollerante.

 

Il primo motivo è il terreno della polemica che viene scelto: ogni persona dotata di alfabetizzazione democratica di base dovrebbe sapere che le forme di espressione della politica sono – nel nostro paese - libere per loro stessa natura. La pretesa di inserire (fra l’altro in nome della evidentemente ignorata Costituzione) una sorta di dichiarazione preliminare che andrebbe resa da chiunque acceda a cariche pubbliche (quali?) contraddice e rinnega un intera architettura costituzionale che è quella disegnata dagli artt. 18, 21 e 49, garanti appunto della libertà di espressione delle forme della politica nel nostro paese. 

 

Quelle citate sono non solo norme reali - al contrario di quella che si vorrebbe ricavare deduttivamente dalla XII disposizione transitoria e finale – ma hanno davvero carattere irrinunciabile e identitario della nostra democrazia. Ebbene, i sostenitori della “tesi antifascista” non si rendono conto che la loro pretesa – qualora accolta – avrebbe carattere distorsivo e lesivo di tali, fondamentali, norme costituzionali.

 

Che la nostra Repubblica sia nata (anche) dalla Resistenza e quindi dalla coalizione delle forze antifasciste è affermazione di carattere ormai storiografico che viene dibattuta, sostenuta o relativizzata sul piano della storiografia. Su quel terreno potrebbe addirittura essere negata senza che ciò configurasse un delitto punibile a norma di legge. Troppo spesso però si confondono storiografia e politica.

 

Dunque è opportuno chiarire: se si può convenire che una affermazione di carattere storico che negasse che la Repubblica italiana sia nata anche dalla Resistenza, fatta da parte di un soggetto politico, rappresenterebbe oggi una scelta inopportuna e politicamente censurabile, soprattutto se proposta in occasioni di rilievo politico-istituzionale, tuttavia questo dato non può confondere o offuscare quanto si è precedentemente affermato: la libertà delle forme di espressione politica – nel nostro paese – esige che ciascun rappresentante politico – meglio, ciascun cittadino nell’esercizio dei suoi diritti politici – esprima liberamente (e quindi in forme discorsive scelte da lui e non imposte da alcuna autorità) il proprio pensiero

 

Imporre vincoli del genere sarebbe stato invece possibile proprio vigente il regime fascista laddove venivano ignorati e denegati, i principi oggi scolpiti negli articoli 18, 21 e 49 della Costituzione.

 

Dunque, prima di tutto in nome della Costituzione, è da respingere con nettezza ogni pretesa di assoggettare le celebrazioni ufficiali del 25 aprile a qualsivoglia forma precostituita e “ufficiale” di discorso.

 

La seconda motivazione per cui tale pretesa è irricevibile è, se possibile, ancora più radicale. L’antifascismo che si vorrebbe imporre come credo ufficiale della Repubblica non esiste più da tempo e riproporlo farebbe fare un salto indietro ancora più grottesco di quello sognato dagli sparuti nostalgici del fascismo.

 

Il punto centrale è che nell’antifascismo da presepe che si vorrebbe propinare – e nel quale purtroppo molti italiani credono in perfetta buona fede - una presenza irrinunciabile è quella del partigiano con il fazzoletto rosso al collo. Questa partitura però, almeno dal 1989, non è più eseguibile. Farlo ha lo stesso valore politico e democratico dei cortei in costume che si svolgono in molte città e borghi d’Italia. 

 

A ben guardare, cioè a guardare con gli occhi attenti di chi intende davvero difendere e salvaguardare la vitalità dei valori della nostra democrazia, già ben prima del 1989 la scena e i costumi delle celebrazioni del 25 aprile avrebbero potuto e dovuto essere cambiati: dai primi anni ’60 Robert Conquest pubblicava il frutto della sua accurata ricerca storica sui crimini dello stalinismo ma già nel 1955 Raymond Aron aveva spiegato come di quei crimini fosse irrinunciabile corollario “l’oppio degli intellettuali”, finché poi, nel 1995, Francois Furet storicizzò la tragica “illusione” del comunismo

 

Da questo percorso nella storia e nella ideologia, popolato di mille altri passaggi e figure eminenti di pensatori e ricercatori, risultò arricchita la coscienza di milioni di democratici e “antifascisti” europei, oltre che definitivamente ammessa nei piani alti del linguaggio democratico la parola “anticomunista”. E avrebbero dovuto trarre profitto da questo cammino anche le celebrazioni nostrane del 25 aprile. Ma così non è accaduto: si è preferito mantenere in piedi il presepe.

 

Ebbene, oggi, l’antifascismo che si vorrebbe imporre come credo ufficiale, sembra non voler riflettere sul fatto che nel perimetro che esso ha tragicamente disegnato trovano posto da anni gli assalitori della Brigata ebraica e altri cultori della violenza di piazza di varia provenienza fra i quali, oggi, i sostenitori di Hamas mentre possono esserne espulsi, con la massima naturalezza (ma anche una buona dose di ignoranza), i rappresentanti di un lucido, democraticissimo anticomunismo.

 

 


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