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02/05/24 ore

Una riflessione per Giulia (e per tutti noi)



di Giulia Anzani

 

Dopo una settimana in cui l’Italia intera ha sperato col fiato sospeso, Giulia Cecchettin è stata trovata senza vita nei pressi del lago di Barcis (PD) il 18 novembre, sette giorni prima della giornata internazionale contro la violenza sulle donne. 

 

Un epilogo agghiacciante, quasi quanto il fatto che nessuno ne sia rimasto sorpreso: il pensiero del femminicidio si è insinuato nelle teste di moltissime persone fin dal primo momento.

 

Secondo EU.R.E.S. in Italia una donna viene uccisa ogni due giorni, secondo l’ISTAT i casi all’anno sono all’incirca 150. Una vera mattanza che sembra non avere fine, uno schema che si ripete eternamente uguale. Impossibile ricordare tutti i nomi, impossibile ricordare tutti i volti a cui è stato strappato il sorriso per sempre. La sindrome del sopravvissuto, anzi delle sopravvissute, si insinua: non è più “povera donna, cosa le hanno fatto” ma “devo considerarmi fortunata perché non mi è capitato”. Che paura, che rabbia, che aberrazione trovarsi a pensare questo. 

 

Ad un certo punto sembra essere un puro colpo di fortuna, trovare uomini che non abbiano la volontà di farci del male… perché se è vero che non tutti gli uomini sono così, è anche vero che tutte le donne nel corso della vita hanno dovuto abituarsi a difendersi, a stringersi l’una all’altra per proteggersi. E mentre ogni donna potrebbe raccontare una o più storie di molestie verbali o fisiche, nessun uomo ha mai detto “sì, sono un molestatore”. È evidente che ci sia un problema alla base.

 

La decostruzione del fenomeno del femminicidio può partire dalla narrazione semplicistica e superficiale che viene portata avanti chiamando “mostro” il molestatore, lo stupratore, l’omicida. Un modo come un altro per allontanarlo da ciò che ha fatto, rendendolo altro dall’essere umano. Ma il violento è un uomo; il violento è una persona comune, che come tutti si muove all’interno di questa società intrisa di maschilismo tossico e pervadente.

 

Educare le nuove generazioni al consenso, al rispetto dell’altro, alla sensibilità: una soluzione a lungo termine che, confidiamo, porterà i suoi frutti; stroncare il fenomeno sul nascere, insegnare come la gelosia e il controllo non siano parte dell’amore ma il suo esatto opposto.

 

Per il momento, comunque, abbiamo superato i cento femminicidi nel 2023. E sappiamo benissimo che Giulia non sarà l’ultima vittima della società, della mancata educazione, della furia cieca maschile. 

 

Sento forte la responsabilità dell’essere donna: lottare per una società più giusta per tutti è il mio compito. Vorrei che la stessa responsabilità la sentisse chi ride degli atteggiamenti sessisti e delle “battute da spogliatoio”; vorrei che la sentisse chi definisce “goliardia” il cat calling e il revenge porn

 

Vorrei la sentisse chiunque, perché nel nostro piccolo, siamo tutti colpevoli.

 

 

Se domani non rispondo alle tue chiamate, mamma.

Se non ti dico che vado a cena. Se domani, il taxi non appare.

Forse sono avvolta nelle lenzuola di un hotel, su una strada o in una borsa nera (Mara, Micaela, Majo, Mariana).

Forse sono in una valigia o mi sono persa sulla spiaggia (Emily, Shirley).

Non aver paura, mamma, se vedi che sono stata pugnalata (Luz Marina).

Non gridare quando vedi che mi hanno trascinata (Arlette).

Mamita, non piangere se scopri che mi hanno impalata (Lucia).

Ti diranno che sono stata io, che non ho urlato, che erano i miei vestiti, l’alcool nel sangue.

Ti diranno che era giusto, che ero da sola.

Che il mio ex psicopatico avesse delle ragioni, che ero infedele, che ero una puttana.

Ti diranno che ho vissuto, mamma, che ho osato volare molto in alto in un mondo senza aria.

Lo giuro, mamma, sono morta combattendo.

Lo giuro, mia cara mamma, ho urlato forte mentre volavo.

Ti ricorderai di me, mamma, saprai che sono stata io a rovinarlo quando avrai di fronte tutti quelli che urleranno il mio nome.

Perché lo so, mamma, non ti fermerai.

Ma, per quello che vuoi di più, non legare mia sorella.

Non rinchiudere i miei cugini, non privare le tue nipoti.

Non è colpa tua, mamma, non è stata nemmeno mia.

Sono loro, saranno sempre loro.

Combatti per le loro ali, quelle ali che mi tagliarono.

Combatti per loro, che possano essere liberi di volare più in alto di me.

Combatti per urlare più forte di me.

Possano vivere senza paura, mamma, proprio come ho vissuto io.

Mamma, non piangere le mie ceneri.

Se domani sono io, mamma, se non torno domani, distruggi tutto.

Se domani tocca a me, voglio essere l’ultima”.

 

Cristina Torre Cáceres (2011)

 

 


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