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05/05/24 ore

Usa, transizione: Obama lascia, Trump ci manda un tweet



di Giampiero Gramaglia* 

(da Affari Internazionali)

 

Gli americani devono ancora scoprire che cosa significa una cerimonia d’insediamento “a sensualità soft”, come l’ha sibillinamente promessa Tom Barrack, il responsabile dell’organizzazione dell’evento. Ma hanno già scoperto che cos’è una transizione “accidentata”, che ti mette a disagio come un viaggio aereo quando ci sono turbolenze, senz’altro la meno liscia del dopoguerra. E anche se il presidente uscente Barack Obama ritrova la calma e lo stile nelle ultime battute, una settimana di proteste precede l’Inauguration Day, venerdì 20 gennaio, sul Campidoglio di Washington.

 

Nel suo ultimo video-discorso del sabato mattina, Obama esorta gli americani a essere “guardiani” della loro democrazia: “Non possiamo darla per scontata”. C’è, nel messaggio, un’eco del discorso di commiato fatto martedì a Chicago: “Yes we can” e “Yes we did”, ma non tutto, non abbastanza. Il giorno che Obama venne eletto la prima volta, fu un’alba radiosa di speranza per tutto il Mondo. Adesso che se ne va, è una notte d’angoscia e di incubi, non solo perché gli succede Trump.

 

Al doppio mandato del presidente uscente, un 8 pieno non glielo dà nessuno degli esperti che fanno le pagelle sulle tv americane: qualcuno glielo riconosce per l’impegno, il carisma e, magari, l’impatto simbolico del primo nero alla presidenza degli Stati Uniti.

 

Ma quando si tratta di giudicare i risultati conseguiti, i più generosi si fermano a un 7+ standard, qualcuno non va oltre il 6-. Perché Obama non ha mantenuto tutto quello che faceva sperare: è stato migliore come candidato che come comandante-in-capo.

 

Una settimana di manifestazioni (e di tweet)

C’è un’America che raccoglie la raccomandazione del presidente: un fiume di persone confluisce sul Mall di Washington a una manifestazione indetta in occasione del Martin Luther King Day e organizzata dal National Action Network del reverendo Al Sharpton.

 

Anche perché fa freddo e c’è la neve, il colpo d’occhio non è quello che aveva di fronte il reverendo King quando, sulla gradinata del Lincoln Memorial, fece il discorso del Sogno: un milione di persone fino e oltre il Washington Monument. Ma il segnale è chiaro e duplice: la gente è lì per tutelare il sogno di MLK e l'eredità d’Obama.

 

In polemica con l’insediamento di Trump, è anche stata la Marcia delle Donne, con in prima linea star dello spettacolo, Scarlett Johansson, Cher, Julianne Moore, Katy Perry, Amy Schumer e altre. Meryl Streep ha fatto il suo, brandendo il Golden Globe appena ricevuto contro il presidente eletto.

 

Intanto, Obama distribuisce onorificenze al merito liberal: premia il vice-presidente Joe Biden, cui Trump fa perdere le staffe (“Diventa adulto!, una buona volta”), dopo avere attribuito Medaglie della Libertà a Bruce Sprigsteen e a una serie di stelle progressiste dello show-bizz americano. Che lo ricambiano: c’era la fila il 7 gennaio, per andare alla festa d’addio degli Obama; e ora c’è la corsa per sottrarsi alla cerimonia d’insediamento il 20 gennaio.

 

Il presidente eletto reagisce a colpi di tweet: l’America e il Mondo ci hanno ormai fatto l’abitudine, la sua sarà una presidenza a misura di Twitter. La comunicazione della Casa Bianca sarà costruita sulle dinamiche del suo social preferito, dov’è più efficace una battuta che un pensiero.

 

Con il tatto che lo caratterizza, Trump non trova di meglio che attaccare - con la parola che per lui è un insulto fra i peggiori, “triste” - un eroe americano, il deputato nero John Lewis, un superstite della marcia di Selma nel 1965. Lewis, come altri parlamentari, boicotterà le cerimonie di venerdì, perché considera “illegittima” l’elezione avvenuta l’8 Novembre, causa ingerenze esterne.

 

Le frontiere dell’Unione già calde

Il clima politico dell’Inauguration Day sarà caldo, come lo è stato quello della transizione: l’avvio d’una commissione d'inchiesta sugli hackeraggi russi sulle elezioni presidenziali e varie ipotesi mediatiche anti-Trump tutte fantasiose - impeachment, tradimento, etc.

 

L’indagine del Senato sugli hacker s’intreccia con le inchieste di stampa sull’attendibilità, o meno, di un dossier che presta a Trump comportamenti disdicevoli, sessuali e d’affari. E l’Fbi ha pure avviato un’inchiesta interna sul comportamento in campagna elettorale del direttore James B. Comey, che potrebbe avere deliberatamente agito per danneggiare Hillary Clinton.

 

Le ultime decisioni dell’Amministrazione Obama, nei confronti di Israele e contro la Russia, sono trappole sugli esordi del magnate alla Casa Bianca (ma danno pure a Trump l’opportunità di fare vedere che la musica è cambiata).

 

Ma anche l’attualità internazionale dissemina di mine il terreno: l’inasprimento della guerra in Afghanistan non consente di progettare un rapido disimpegno, come sarebbe forse piaciuto fare; e lo schieramento di truppe della Nato in Polonia, con 4mila carri armati Usa, uno sforzo inaudito dal crollo del comunismo in Europa, crea una situazione imbarazzante (se ce li lasci, deludi la Russia; se li togli, deludi - e spaventi - la Polonia e i Baltici).

 

Il presidente eletto, in dichiarazioni attribuitegli ed in un’intervista al WSJ, si dice pronto a cassare le sanzioni alla Russia (e il WP rivela che il presidente russo Vlaidmir Putin l’ha invitato a fare sedere gli Stati Uniti al tavolo dei negoziati sulla Siria in Kazakhstan) e rifiuta di prendere impegni sul rispetto della tradizionale linea Usa di ‘una sola Cina’.

 

Trump colleziona critiche internazionali: il premier canadese Justin Trudeau contesta le sue priorità; il presidente palestinese Abu Mazen da Roma e il presidente francese François Hollande deprecano il progettato trasferimento dell’ambasciata degli Stati Uniti in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme; la cancelliera tedesca Angela Merkel auspica un approccio multilaterale Ue/Usa, mentre Trump vorrebbe trattare da Stato a Stato; e il presidente messicano Enrique Pena Nieto ripete che il muro lungo il confine lui non lo pagherà.

 

I ministri in dissenso con il presidente: gioco delle parti?

A stemperare gli allarmi, ma pure a suscitare interrogativi, c’è il fatto che, nelle audizioni in Senato, i futuri ministri designati da Trump sono più cauti del loro boss e tendono a collocarsi in una linea di continuità con l’Amministrazione uscente. In particolare il segretario di Stato in pectore Rex W. Tillerson è misurato su rapporti con la Russia e cambiamento climatico. E il segretario alla Difesa, il generale James N. Mattis, avalla l’intesa sul nucleare con l’Iran.

 

Altri punti di contrasto tra le affermazioni di Trump e le audizioni dei suoi ministri sono il ripristino della tortura contro i terroristi, la messa al bando dei musulmani, l’erezione di un muro al confine con il Messico.

 

L’uomo scelto per guidare la Cia, Mike Pompeo, assicura che l’Agenzia indagherà sugli hacker russi e sui possibili legami con la squadra di Trump. Continuano a suscitare perplessità l’affidamento delle aziende di famiglia ai figli del magnate e non a un ‘blind trust’ e la designazione del genero Jared Kushner, uomo d’affari ebreo, marito di Ivanka, a consigliere per il Medio Oriente.

 

I repubblicani in Congresso bruciano le tappe nello smantellare l’eredità di Obama: hanno già messo mano allo sventramento dell’Obamacare, la riforma sanitaria. E Trump distribuisce, ovviamente via Twitter, elogi e rimbrotti all’industria dell’auto a seconda che s’adegui - la Ford - o meno - la GM - alla sua direttiva principe, produrre negli Usa.

 

(*) Giampiero Gramaglia è consigliere per la comunicazione dello IAI.

 

 


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