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02/05/24 ore

Giustizia, strutture inadeguate e arretratezza culturale – intervista a Vincenzo Siniscalchi



Quaderni Radicali 108, in uscita in questi giorni, dedica un ampio Primo piano all’ InGiustizia. il prefisso privativo esplicita la gravità delle patologie della “questione giustizia” in Italia. Patologie che aggrediscono più fronti: dalla vita insostenibile dei carcerati ai guasti irrimediabili sulle istituzioni. Lo stesso ordine della magistratura, sottoposto a devastanti lotte di e per il potere, ha assunto fisionomie irrintracciabili altrove nel mondo. Il sistema giustizia è arrivato a livelli di assoluta controproduttività con drammatici riflessi sul sistema Paese nel suo complesso, che pregiudicano investimenti e condizioni del vivere civile.


 

Vincenzo Siniscalchi, quali sono le cause della crisi della giustizia a cui assistiamo?

 

Sento parlare di crisi della giustizia da quando ho cominciato in anni lontanissimi la professione di avvocato e da quando frequentavo l’università come assistente. All’epoca si pensava che la giustizia penale soffrisse del fatto che negli anni ’70 non si era riusciti a riformare l’impianto dei codici, in particolare il rito inquisitorio. Io sono stato attivo nel promuovere il cambiamento del rito da inquisitorio stretto a quasi accusatorio, com’è l’attuale processo.

 

E’ stata un’illusione culturale e sociale perché si credeva di dare al pubblico ministero una funzione rapportata solo all’acquisizione delle indagini più urgenti e si pensava di fare in modo che tutte le prove venissero accolte nel dibattimento. Sono passati 23 anni e si è capito che la raccolta di prove solo nel dibattimento è in gran parte fallita a causa di un problema strutturale che riguarda molto anche il processo civile.

 

Le strutture a nostra disposizione non sono idonee a produrre i due elementi fondamentali che possono rendere credibili la giustizia: un processo celere e che dia al cittadino protagonista del processo un risultato che renda la decisione che assume il giudice certa e ragionevole. Ma la mancanza di strutture adeguate ed una sostanziale forma di arretratezza culturale ci allontana molto anche dai fondamenti Illuministici del diritto.

 

Quando leggo i discorsi sulla prova penale di Mario Pagano, giurista luminoso che fu assassinato dalla reazione Sanfedista a Napoli nel 1779, trovo molta più attualità nella ricerca e nelle proposizioni di questo grande sotto il profilo delle garanzie di quanto non se ne trovino in volumi e volumi di scienza giuridica contemporanea.

 

Ad esempio sui pentiti: ad oggi non c’è una legislazione idonea a contenere l’abuso del pentitismo “a rate”, a contenere questa specie di colloqui accanto al caminetto, come li definiva il giudice Giovanni Falcone, in cui il pentito gioca il suo ruolo di destrezza che trae in inganno l’inquirente. Qui entra in gioco non solo un discorso di carenze strutturali intese come materiali, di mezzi, ma anche un discorso di crisi della capacità legislativa…

 

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