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03/05/24 ore

Referendum bistrattato, quelli che c’hanno messo un Di Pietro sopra


  • Silvio Pergameno

L’istituto del referendum è stato concepito nella nostra Costituzione come uno degli strumenti istituzionali per correggere il sistema parlamentare puro, esposto, come è noto, ai rischi della degenerazione assemblearistica e partitocratica, rischi che si sono puntualmente verificati nella quarta repubblica francese e nella nostra prima repubblica italiana (dalla quale non siamo ancora usciti, a modesto parere di chi scrive). 

 

L’altro correttivo era costituito dai poteri del Presidente della Repubblica, cautamente addomesticati dalla prassi della concreta vicenda politico-istituzionale. E anche il referendum concretamente poi è venuto in essere azzoppato e mal visto: già passò un quarto di secolo prima che una legge ordinaria, necessaria per regolare la non semplice procedura di svolgimento della consultazione popolare, vedesse la luce, non solo, ma questa legge non fu affatto dettata con l’intento di rendere esercitabile un diritto degli elettori, connesso alla struttura stessa della nostra democrazia, così come i costituenti la avevano concepita.

 

La legge attuativa del referendum fu voluta dalla DC fanfaniana in occasione della discussione della legge sul divorzio, quando cioè l’iniziativa radicale per lo scioglimento legale del matrimonio era riuscita a mobilitare a tal punto l’intero paese che anche la sinistra, legata alla DC dalla politica del dialogo con i cattolici, era stata costretta a piegare la testa.

 

La DC allora giocò l’ultima carta che le era rimasta: il referendum abrogativo, convinta che gli italiani avrebbero votato per la cancellazione del divorzio. Le cose andarono diversamente, ma il referendum restava pur sempre una spina nel fianco dell’avanzante partitocrazia, che non soltanto ne ha sempre contrastato l’uso innovatore, ma, quando il potere dei partiti si è andato indebolendo e la loro compattezza interna è entrata in crisi, l’istituto è stato largamente usato come strumento per cercare di sopperire alle incapacità di fare politica, sempre osteggiato non soltanto dai partiti, che hanno sempre cancellato le riforme conseguite con il voto popolare,ma anche dalla stessa Corte Costituzionale, che ne ha sempre sforbiciato e contornato il campo di azione, attraverso i giudizi di ammissibilità.

 

Con i referendum promossi da Italia dei Valori di Antonio Di Pietro, sostenuta da quel che resta della diaspora seguita alla crisi e poi alla morte del PCI e da altre piccole formazioni marginalizzate (i referendum sul valore universale dei contratti nazionali di lavoro e sull’abolizione dell’indennità parlamentare), è successo di peggio.

 

Questi referendum sono stati dichiarati irricevibili dalla Corte di Cassazione, in applicazione dell’art. 31 della legge di attuazione del referendum (L. 25.5.1970, n. 352) che stabilisce infatti non si possono presentare richieste di referendum nell’anno antecedente la scadenza delle Camere e nei sei mesi successivi alla convocazione dei comizi elettorali (cioè all’indizione delle elezioni).

 

A questo punto occorre ricordare che la richiesta di referendum è quella corredata dalle firma necessarie e che per avviare la raccolta di queste firma i promotori debbono recarsi in Cassazione per l’esplicazione delle necessarie formalità. In Cassazione i promotori formalizzano l’iniziativa e si redige un verbale, dopo di che i promotori debbono far vidimare i fogli dove i cittadini apporranno le firme nelle segreterie dei comuni o degli uffici giudiziari e dalla dalla data delle vidimazioni decorrono i tre mesi che la legge concede per presentare poi le firme in Cassazione.

 

Non lo sapevano Di Pietro, Vendola, Ferrero, Diliberto, Bonelli, i sindacalisti CGIL e gli altri promotori, che lo scorso settembre si sono recati in Cassazione per le formalità preliminari di cui si è detto? Non si può credere che non sapessero che la legislatura in corso stava per spirare entro pochi mesi! E poi perché mettersi a raccogliere le firme che non avrebbero potuto essere presentate; e poi perché presentarle lo stesso?

 

Si è inflitto un altro colpo al canale istituzionale voluto proprio per collegare operativamente e nella legge la partecipazione dei cittadini, in una condizione di assoluta impossibilità di raggiungere un qualsivoglia risultato. Che se poi si fosse sperato di ottenere almeno di voler dare in qualche modo un segnale di presenza, allora occorre pur rilevare che le operazioni meramente strumentali in politica non servono molto: proprio la durezza del confronto ne fa rapidamente giustizia e le ritorce contro i promotori.


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