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12/10/24 ore

Ambrogio Crespi entra in carcere in nome (e nel silenzio) del popolo italiano



di Camillo Maffia

 

L'ingresso in carcere di Ambrogio Crespi è uno di quegli eventi simbolici dove il confine tra realtà e metafora sembra perdersi nel silenzio dell'immagine, dove un finale che nelle intenzioni degli autori dovrebbe mostrare al pubblico l'esito dell'implacabile ma imparziale corso della giustizia lascia invece gli spettatori inquieti e non convinti; essi tacciono, a loro volta, come nelle ultime indicazioni di scena del Boris Godunov di Alexsandr Puskin.

 

Così il grande autore russo volle concludere il suo celebre dramma: con astanti che dovrebbero applaudire, ma non lo fanno; si racconta che il regime sovietico abbia lasciato intatto il copione teatrale, cambiando solo questa scena conclusiva per sostituirla con un popolo che batte invece obbedientemente, e stupidamente, le mani.

 

Anche noi ci troviamo qui oggi a un bivio analogo: dobbiamo credere nella giustizia come fosse un dogma, in base al quale giunti all'ultimo grado di giudizio stringiamo tra le braccia una verità irrefutabile, e applaudire al finale, benché tragico, di questa discussa vicenda?

 

O possiamo lasciarci contagiare dal silenzio dell'immagine, senza battere le mani, per non lasciar cadere il dubbio che, in virtù d'una insopportabile ironia della sorte, il regista del più efficace lavoro mai realizzato sul caso di Enzo Tortora stia ora subendo un destino non solo analogo, ma perfino peggiore?

 

Perché qui il problema non è il fatto che Crespi sia innocente, bensì il principio: se bastano questi elementi per condannare un uomo a sei anni di carcere, come da poco confermato dalla Corte di Cassazione, allora la sola conclusione logica, per quanto ciò infranga ogni fiducia di stampo dogmatico nei riguardi della giustizia, è che chiunque di noi si potrebbe ritrovare nella situazione di quell'uomo, senza aver necessariamente fatto qualcosa per meritarlo.

 

Ripercorriamo brevemente i fatti: Crespi viene accusato nel 2012, nell'ambito di una inchiesta che travolge la regione Lombardia, di aver procurato 2500 voti all'assessore Domenico Zambetti in ambienti 'ndranghetisti.

 

Come sottolineerà la difesa nel corso del dibattimento, se da un lato siamo certi che i due non si sono mai incontrati, dall'altro non vi è prova che effettivamente si conoscano: stiamo parlando di sei anni per concorso esterno in associazione mafiosa, inflitti a un uomo che ha fatto del contrasto anzitutto culturale alla mafia il perno della sua attività professionale e creativa, “perché avrebbe prodotto dei voti per un politico che non ha mai conosciuto insieme a delle persone che non hanno mai frequentato la sua vita”, come ha sintetizzato suo fratello Luigi.

 

Le accuse nascono infatti da intercettazioni che lo chiamerebbero in causa, nelle quali si afferma che Crespi si sarebbe servito di frequentazioni criminali nelle periferie di Milano per portare voti a Zambetti. Tale vicinanza del regista agli ambienti 'ndranghetisti non trova alcuna conferma se non nelle dichiarazioni d'un pentito la cui attendibilità è quantomeno controversa.

 

Per quanto riguarda i voti procacciati, non si riscontreranno picchi di preferenze a favore dell'assessore nelle zone “incriminate” della periferia di Milano, né sarà possibile per l'accusa dimostrare, neppure con prove indiziarie, che Crespi li abbia ottenuti con metodi coercitivi. Roberto D'Alimonte, il maggior esperto di flussi elettorali in Italia, mostrerà invece come nelle aree in cui il regista sarebbe intervenuto per influenzare l'esito delle urne non vi siano in realtà picchi significativi a favore di Zambetti.

 

Con questi elementi un uomo specchiato, dalla vita caratterizzata da un forte impegno sociale al punto che la sensibilità nei riguardi degli ultimi è stata per lui fonte d'ispirazione nel realizzare i suoi lavori di maggior successo, viene condannato a sei anni.

 

È questo l'esile canovaccio che ci conduce al finale della nostra allegoria della giustizia, il dramma che ci consegna il tragico finale in cui Crespi fa il suo ingresso nel carcere di Opera “in nome del popolo italiano”.

 

Il quale, però, non può applaudire.

 

Non stavolta.

 

(foto da il Riformista)

 

 


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