Informativa

Questo sito o gli strumenti terzi da questo utilizzati si avvalgono di cookie necessari al funzionamento ed utili alle finalità illustrate nella cookie policy. Se vuoi saperne di più o negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie, consulta la cookie policy.
Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie.

19/04/24 ore

'Prima del silenzio', a Napoli in scena le parole perdute



Il cartellone della stagione 2013/14 del teatro stabile di Napoli, il Mercadante, è particolarmente interessante. Unisce, secondo la formula adottata dal direttore Luca De Fusco anche per il napoliteatrofestivalitalia, le produzioni nostrane a quelle estere, preferendo, tra queste ultime, quelle di ascendenza mediterranea.

 

Ha inaugurato questa stagione "Prima del silenzio" (in scena fino al primo dicembre). Scritta da Giuseppe Patroni Griffi nel 1979, l’opera è costituita soprattutto dal dialogo tra un vecchio e un giovane. Perciò è stata spesso presentata come volta a illustrare il rapporto difficile tra le generazioni, un tema molto antico. Sempre attuale, certo, ma teatralmente ormai stantio. Vecchio di millenni, lo ricordiamo in opere latine di Terenzio (185/159 a. C.), il liberto che si sarebbe ispirato al greco Menandro (344/293 a. C.), un ateniese vissuto del IV sec. a. C., addirittura.

 

In realtà il tema più evidente di “Prima del silenzio” è suggerito dallo stesso titolo ed ha un quasi profetico significato. Il silenzio è di quelle parole che non verranno più dette, non più ascoltate, non più vissute. Sono le parole che esprimono quell’insieme di pensieri, immagini, idee, sentimenti, passioni che costituiscono l’anima umana. E che verranno abolite, perdute.

 

Scritta nel 1979, “Prima del silenzio” sembra descrivere la tendenza di oggi, quando, tranne quelli di maniera, i sinceri sentimenti umani sembra stiano lì lì per scomparire. Il protagonista è un vecchio poeta. Parla, parla tanto. Con parole alate descrive le sue fantasie, e forma, con le parole, immagini di guerrieri, di cow boy alla John Waine e di guardie imperiali austriache; e poi, ancora, scene di lusso e di piacere; e ci sono belle donne, c’è Marlène Dietricht, occhi che parlano e bocche che sorridono.

 

Il giovane a volte partecipa alle fantasie del vecchio, ma spesso è distratto. Molto legato alla fisicità, fa esercizi ginnici e legge riviste pornografiche. Dice che le parole servono solo a indicare le cose concrete. Ma la parola poetica (ovvero poietica, fattrice,) non solo esprime l’umano sentire ma lo crea. “Je vous aime” diceva una lei di una vecchia canzone a un lui che, con le sue parole d’amore, l’aveva fatta innamorare. Eppure il vecchio poeta non viene in quest’opera esaltato. Anzi, sembra che nella sua vita non ne abbia combinato una giusta.

 

Ecco che sulla scena il teatro, cioè lo spettacolo visivo, ha il sopravvento. Attraverso stupendi, suggestivi giochi scenici, appare, come in un incubo, la sua ex moglie che proprio per le sue poetiche parole era stata di lui innamorata, ma non abbastanza da accondiscendere alle sue voglie notturne. Ora lo disprezza e lo umilia perché lo considera un parassita, un arrampicatore sociale.

 

Lo disprezza anche il cameriere, che lo aveva ammirato da ricco, perché ora è diventato povero. Crudelmente e crudamente gli dice che ha fatto bene a sfruttare la ricchezza della moglie finché ha potuto, non si può fare il poeta senza soldi. Per il cameriere, l’arte e la bellezza non esistono senza il lusso della ricchezza. (E da un certo punto di vista la tesi non è del tutto sbagliata). Più complessa e più umana è la figura del figlio, a cui il vecchio non ha saputo far da padre. “sai, gli dice, è stato pubblicato un libro con le tue poesie. Le ho raccolte io”. E gli domanda, con nostalgia o, meglio, con una certa gelosia e con il desiderio di un amore che non ha mai avuto : “Dimmi, dimmi, tu ami il giovane che sta con te?”.

 

Lo ripete più volte. Ma il giovane in questione non vuole vivere più con il vecchio poeta. Gli dice, urlando, di zittire, che è non ne può più delle sue parole. Lo lascia. Va via con lo zaino in spalla. Ma poi, nell’uscire, si gira e dice, disperato, di avere tanto dentro di sé ma non sa che cosa sia, non conosce se stesso, ha tante cose dentro, ma non le sa capire, dire. Noi umani abbiamo bisogno di parole, non del vuoto bla bla, ma di parole poetiche; di quella poesia attenta, calda, vera, che esprime e forma i sentimenti, le idee, le passioni e anche le illusioni che abitano dentro di noi. Lunghi applausi al protagonista Leo Gullotta, al giovane Eugenio Franceschini e al regista Fabio Grossi.

 

Adriana Dragoni


Aggiungi commento