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06/12/24 ore

Per un pugno di blues: le ballate maledette di Lydia Lunch e Cypress Grove



di Gianni Carbotti

 

Non siamo sicuri che le vetuste mura del Forte Prenestino, struttura militare dismessa risalente all’Ottocento e parte in origine del sistema difensivo dell’allora neo-capitale d’Italia (da vent’anni sede di uno dei centri sociali occupati più attivi di Roma per numero e varietà di iniziative) per quanto coperte di graffiti ed ornate da grottesche sculture biomeccanoidi, somiglino a quelle degli edifici dell’East Village/Lower East Side, cuore storico della scena alternativa di New York.

 

Eppure in una gelida serata di novembre, per una manciata di preziosi momenti ci siamo ritrovati ad annusare, condividere, percepire sottopelle, l’atmosfera fumosa e selvaggia che quei luoghi - e i nomi ad essi legati - continuano ad ispirare a tutti gli appassionati dei suoni più vibranti ed “uncompromising” nati nelle strade e nei locali, più che negli studi di registrazione, della metropoli americana.

 

Tra quei nomi quello di Lydia Lunch è probabilmente tra i più evocativi se si considera la frequentazione di lunghissimo corso che l’artista, scrittrice, sceneggiatrice, musicista dalle mille collaborazioni ma soprattutto performer extraordinaire, esponente fondamentale del movimento No Wave, ha con i luoghi oscuri dell’essere, luoghi non essenzialmente fisici ma caratteristici del bagaglio esperienziale di chi, avendo smarrito la sua anima, si lascia sprofondare senza paure né rimorsi in una spirale di cui difficilmente s’intravede il fondo.

 

Certo l’anima non è facile da recuperare per chi l’ha perduta, ma almeno nel blues è possibile secondo tradizione trovare ristoro, se non altro, per i propri mali interiori, il proprio nichilismo…questo lo sapeva bene anche Jeffrey Lee Pierce, un ragazzo che ha lottato con i suoi demoni nell’arco di tutta l’esperienza della sua breve vita lasciandoci canzoni straordinarie e il ricordo d’una presenza bruciante.

 

 

Probabilmente è proprio l’inquieto fantasma di Jeffrey Lee ad averci convocato stasera al Forte Prenestino per la tappa romana di Lydia Lunch, in tour per promuovere “Under The Covers”, la più recente release edita dall’etichetta italiana Rustbladedel suo appassionante progetto desert blues insieme a Cypress Grove, chitarrista britannico al fianco proprio di Pierce tra fine anni Ottanta e inizio Novanta.

 

La partnership tra i due infatti è nata nel 2006 proprio per omaggiare il lavoro dell'indimenticato leader dei grandissimi Gun Club, allorquando Cypress Grove mise insieme un cast straordinario di artisti come Nick Cave, Debbie Harry, Mark Lanegan, Iggy Pop ed altri tra cui la stessa Lunch per il suo "Jeffrey Lee Pierce Session Project", dedicato a ri-registrare e sviluppare compiutamente idee e frammenti musicali incisi tempo addietro con lo stesso Pierce.

 


 

Ma se Lydia nello JLPSP aveva prestato la sua voce ruvida ed appassionata a due grandissimi brani come "St Marks Place" e "My Cadillac", il sodalizio tra i due è stato ripreso successivamente in maniera autonoma, dando vita a nuove composizioni e riletture strettamente personali in cui i sofferti temi blues originari derivati da Pierce s’intrecciano con atmosfere rarefatte e crepuscolari degne d’uno spaghetti-western in cui risuonano echi e suggestioni morriconiane.

 

E se già precedentemente, nei due album “A Fistful Of Desert Blues” e “Twin Horses”, i due artisti si erano dedicati con passione allo stravolgimento sonoro ed emotivo di brani altrui, il nuovo lavoro consiste proprio in una raccolta di covers che spazia da classici commerciali a rare gemme underground, dal machismo rock di “Blaze of Glory” di Jon Bon Jovi all’introversione del menestrello folk Aaron Lee Tasjan con “A Thousand Miles Of Bad Road”, dal lirismo stralunato di “The Spy” dei Doors alla funerea ballata sudista “Ode To Billie Joe” di Bobbie Gentry, pezzi diversissimi tra loro appositamente scelti per essere deformati e reinterpretati dalla voce piena di rabbioso tormento della Lunch e dalla chitarra strafatta e gemente di Cypress Grove.

 


 

Sotto le arcate del Forte una folla tenace quanto infreddolita sembra aspettare, sospesa, l’inizio del concerto, l’evocazione finale degli spettri del folk urbano ma, proprio come un altro fantasma, dalla penombra appena squarciata da luci sulfuree emerge d’improvviso la contrabbassista romana Caterina Palazzi, leader della band Sudoku Killer, abbracciata al suo strumento come un naufrago a un relitto in una notte di tempesta, sola sul palco, le sembianze coperte da una maschera bianca, a presentarci il suo progetto solista ZALESKA (nome derivato dalla figlia illegittima del Conte Dracula), in cui ogni composizione musicale è ispirata ad un attore che ha interpretato il personaggio del conte transilvano al cinema, con una scaletta fatta di suoni dissonanti, stralci rumoristici al calor bianco inframmezzati da vaghe linee melodiche.

 

Un set breve ma intenso, degno di servire come ipotetica colonna sonora di qualche film noir o di qualche catastrofe di là da venire, che scorre fluido come terra ai lati di una bara, poi i bassi si spengono in un ultimo singulto elettrico e siamo pronti all’ingresso trionfale sul palco di “Mama Lunch” che non si fa attendere.

 


 

Se c’è una cosa suggestiva di certi generi musicali è che proprio nella dimensione live ci si rende conto di come tanto di quel fantastico rumore con cui ci spacchiamo volentieri le orecchie sia alla fine prodotto da un numero esiguo di persone, ed anche stasera assistiamo all’ennesima conferma di quest’assunto: on stage ci sono solo tre musicisti, il sound è ridotto all’essenziale – voce, chitarra acustica, batteria - eppure la band appare coesa e si lancia tra i vari brani come quel proverbiale treno tante volte cantato nei versi maledetti dei patriarchi del Delta del Mississippi come Son House, Charlie Patton, Willie Brown o Robert Johnson.

 

Jericho” dal loro primo album ci percuote con un ritmo che potrebbe effettivamente rendere friabili le mura d’una città assediata. C’è polvere e sudore in tutto questo, c’è cuore…e la chitarra dell’imperturbabile Cypress Grove lancina melodie essenziali, di quelle che ne scandiscono i battiti, mentre Lydia ringhia fuori le parole come selvaggi mantra e tutto magicamente sembra prendere forma.

 

 

La scaletta dei brani prevede certamente che luce ed ombra s’alternino, sebbene sia chiaro in certi momenti che è la tenebra interiore a farla da padrona come quando la cantante ci prende per mano e ci porta a passeggiare per “St Mark Place”, nel cono d’ombra prodotto dall’assenza di Jeffrey Lee Pierce, un ombra ed una malinconia resa ancora più drammatica dalla consapevolezza che l’autore della canzone è andato per sempre e non solo lui dato che la stessa St Mark's Place, una volta al centro della vibrante e variopinta controcultura di New York, non è più quello che era ai tempi.

 

Lydia Lunch omaggia così non solo il suo stesso passato ma l’idea stessa del passato, dei tempi andati, del tempo che passa inesorabile. Nel caso però si possa pensare che sia la nostalgia a dominare la situazione, senza troppe cerimonie siamo riportati al presente con una versione tanto ossessionante quanto efficace di "Revolver" di Mark Lanegan. Ora la band procede a tutta velocità, gli elementi dell’alchimia sonora proposta si compenetrano perfettamente tra loro; il gioco serrato tra chitarra e batteria crea il giusto fondale ritmico per gli ululati di Lydia che rimbombano sotto le volte e nella notte.

 

 

Altri brani si susseguono, altre danze e balli e linguacce e battute col pubblico che segue come in trance le evoluzioni e le movenze da ambigua sacerdotessa pagana di una donna non più giovane ma ancora vitale come non mai, che pure non esita a rimettersi in gioco continuamente come nella cover di una delle sue stesse canzoni, "Won’t Leave You Alone" scritta con James Johnston (Gallon Drunk / PJ Harvey / Bad Seeds) per il progetto Big Sexy Noise e riarrangiata passando dai toni originari dell’ossessione percussiva più propriamente rock al folk da ballate.

 

Uno dei momenti migliori del concerto secondo chi scrive. Questo concerto dimostra ancora una volta che tra le sue doti Lydia Lunch ha l’indubbio dono di saper orchestrare alla perfezione le collaborazioni o meglio ‘collisioni’ in cui sceglie d’essere coinvolta, con un’istintiva precisione che ha qualcosa d’innato.

 

Innato come tutto il migliore rock’n’roll del resto, anche se esso stesso è invecchiato, anche se guardandoci intorno ci rendiamo conto che l’audience per quanto vibrante ed eccitata ha abbondantemente superato i 40 anni di media e “Death is Hanging Over Me”, l’ultima canzone del set, sembra scritta proprio per ricordarci la desolante caducità che ci rende tutti umani, eppure… eppure quando la poetessa-singer alla fine del concerto ci saluta con un doppio dito medio alzato, come un ultimo sberleffo punk a tutto - l’arte, la musica, la troppa troppa vita - augurandoci la buona notte e dandoci appuntamento per la prossima volta ci sembra fin troppo chiaro che ci sono persone e cose, come il rock’n’roll, assolutamente immacolate ed immortali.

 

Lydia Lunch è una di queste, se capita dalle vostre parti cercate di non perdervela finché siete vivi.

 

 

Per un pugno di blues

al Forte Prenestino le ballate maledette di

Lydia Lunch e Cypress Grove

Roma, 22/11/2017

 

(foto di Gianni Carbotti)

 

 


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