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12/10/24 ore

Trieste Film Festival 2015, brillano il georgiano Ovashvili e la Masterclass di Zanussi



di Vincenzo Basile

 

E’ Gyorgy Palfi a chiudere in bellezza la  26.ma edizione del Trieste Film Festival 2015, con il suo surreal-grottesco-spiritual-metafisico SZABADESES (Caduta libera), proiettato a ridosso della cerimonia di consegna dei premi. 6 diverse storie che si intrecciano nel vano scala del medesimo condominio, in una Budapest post moderna, capitale europea del tutto simile alle consorelle occidentali.

 

Forse il primo film a mostrare un’Ungheria non più post sovietica ma, pur mantenendo le peculiarità intrinseche alla sua storia, ormai del tutto indifferenziata dal resto d’Europa.

 

Vicende, caratteri, situazioni, paradossi di una contemporaneità ormai globalmente condivisa e per questo universale.

 

Un’opera che scorre limpida tra sarcasmo, ironia, satira sociale, nella quale sono rintracciabili le molte fonti (da Bunuel a Fellini, da Jodorosky a Keaton) che danno vita all’originalità creativa dell’autore.

 

Mundrukzo con il suo Feher Isten (Dio bianco) e Gero Marcell con i suoi inquietanti Kain Gyermekei (Figli di Caino) hanno avuto la loro parte di attenzione, meritato riconoscimento e largo consenso, mentre tra i 3 documentaristi nostrani in concorso, il più interessante è stato indubbiamente il ventiquattrenne Attila Hartung con Ischler, denuncia di un aspetto più sottile ma anche più subdolo del collaborazionismo filo-nazista durante l’occupazione tedesca dell’’Ungheria. 17 minuti di paranoia pura in casa di un noto medico che nella Budapest del 1944, nasconde, molestandone una, tre sorelle ebree. Un piccolo gioiello di regia ma anche di interpretazione (Tibor Szervét, Kata Pető, Angéla Eke, Kata Bach, István Znamenák) e ambientazione.

 

Il livello qualitativo della manifestazione è anche quest’anno elevato e come accade spesso in questo genere di gare, anche se le opere migliori sono più numerose dei premi in palio, delle scelte vanno comunque fatte. Ed è il voto del pubblico in sala che decide l’assegnazione dei 5 premi in palio.

 

E’ SIMINDIS KUNDZULI (L’isola del granoturco) ad aggiudicarsi quest’anno il premio per il miglior lungometraggio. L’Isola è la protagonista principale di "un film sui grandi temi della vita: nascita, crescita,, amore lotta, decadenza e morte", sostiene l’autore, il georgiano  George Ovashvili.

 

Anche se attuale e ambientata sul fiume Inguri, al confine tra la repubblica di Abcasia e la Georgia, è una vicenda universale che potrebbe aver avuto luogo sull’Arvand, il fiume che separa Iraq e Iran o sul Reno, confine naturale tra le nazioni in guerra nel corso della storia europea del ‘900. Un ostinato ma bonario contadino costruisce sull’ansa del fiume di confine una baracca, per viverci con la giovanissima nipote, coltivando granoturco. Ma la vita , come il fiume, continua a scorrere…

 

 

Il premio ALPE ADRIA CINEMAal miglior documentario in concorso va a: SOMETHING BETTER TO COME (Qualcosa di meglio avverrà) della polacca Hanna Polak, favola vera di Yula, nata e cresciuta nella più grande discarica d’Europa, la Svalka, situata a una ventina di chilometri dal centro di  Mosca. Il film propone una sintesi della quotidianità dei primi vent’anni dell’adolescente, che trascorre tra violenze subite e momenti di spensieratezza insieme ai compagni di sopravvivenza, e il sostegno disperato e impotente di una madre alcolizzata. Nonostante tutto, la speranza non abbandona la ragazza.

 

Nella sezione cortometraggi, DAVAY NE SYOGODNI (Facciamo la prossima volta) della ventitreenne regista ucraina Christina Syvolap, racconta una coppia di anziani che decide di morire nello stesso giorno, insieme. Il marito però, dovendo completare un suo progetto segreto, cerca di ritardare la data fissata per l’evento.

 

Il premio InCE (Iniziativa Centro Europea) 2015 viene quest’anno assegnato a Tiha K. Gudac per il film GOLI (Isola nuda, Croazia 2014 ).

 

Il film denuncia come il passato di una nazione possa avere ancora conseguenze sul presente. E’ la ricostruzione della prigionia del nonno, scomparso per quattro anni in un campo della ex Jugoslavia conosciuto come "l’isola delle anime disperate" ; e del suo ritorno con il corpo ricoperto di cicatrici. Su quella vicenda il vecchio ha sempre mantenuto il più assoluto segreto, al punto che in casa sua, parlare dell’argomento, è sempre stato vietato. Per anni la regista ha raccolto in un mosaico, frammenti di storia, fotografie e testimonianze sugli orrori avvenuti in quel luogo.

 

Ampiamente discutibile invece l’attribuzione dello SKY ARTE AWARD a ROCKS IN MY POCKETS della regista lettone, naturalizzata negli USA, Signe Baumane, una coproduzione statunitense-lettone. Opera squilibrata proprio in quanto gradevole da vedere ma fastidiosissima da ascoltare.

 

 

La Baumane è evidentemente una valente disegnatrice, sceneggiatrice, fotografa e montatrice ma la sua voce narrante è monotona, monocorde, insomma decisamente noiosa, sgradevole e velleitaria nella pretesa di dare incessantemente voce a tutti i personaggi della vita e alla depressione di Anna, la nonna. Ne risulta un monologo che sembra ossessivamente inseguire le pur belle immagini animate; per novanta interminabili minuti.

 

L’evento culminante della manifestazione arriva con la masterclass tenuta da Krzysztof Zanussi, presente al festival col suo ultimo Corpo Estraneo (Obce Cialo).

 

Il regista ha illustrato il difficile rapporto tra la generale tendenza degli storytellers a contenere le tematiche delle sceneggiatura (prima ancora che del film) nell’argine del politically correct e la necessità di trattare l’aspetto conflittuale della realtà sociale e dei rapporti umani in particolare.

 

Di frequente questo rapporto viene pervertito dalle due tipiche, consuete, esigenze produttive: la necessità commerciale di una lieta conclusione delle storie e la preoccupazione, ancora e quasi sempre commerciale, di assumere una posizione di principio (più o meno) etico che solo una parte del pubblico, contrapponendosi a quella contraria, condividerebbe.

 

 

Nella quasi totalità del cinema main stream, non solo Hollywoodiano, la scelta non si pone nemmeno per l’ovvia devozione al sacro box office ma questa auspicabile compattezza etica, unità concettuale e contenutistica, viene a mancare non di rado anche nel cinema europeo.

 

Un conflitto esemplare di questo scenario, è proprio al centro di "Corpo estraneo": quello tra valori spirituali e i compromessi mondani nel Polonia del boom economico in corso. Zanussi testimonia: «Da noi, il benessere della vita materiale è arrivato con un certo ritardo, come uno shock. Ci siamo arricchiti in un periodo breve, com'è avvenuto in Italia negli anni '50, e questo ha creato confusione tra le persone che hanno approfittato di questo arricchimento senza rendersi conto che il prezzo da pagare era perdere la propria libertà. Noi che abbiamo combattuto per la libertà per decenni vediamo che i giovani vendono la loro facilmente, soprattutto lavorando per le multinazionali che spesso impongono anche il modo di vivere, di parlare, di mangiare, di vestirsi».

 

Nel film, a essere vittime di questo meccanismo sono soprattutto le donne: «Molte hanno creduto che la parità fosse essere come gli uomini e anche, magari, peggiori di loro. Ma questa è una visione deviata del femminismo. Sono un sostenitore del femminismo che crea per uomini e donne le stesse opportunità e annulla le differenze culturali, ma le differenze biologiche non si possono dimenticare. Le donne dovrebbero poter iscriversi nella modernità senza perdere i loro valori femminili». In "Corpo estraneo a mantenere saldi i valori umani è un personaggio italiano (Riccardo Leonelli)". Come mai, chiediamo? «Certamente per i miei legami con l'Italia, in quanto la mia famiglia ha origini pordenonesi  e poi anche perché l'Italia laica rimane comunque molto cattolica quando parla di diritti umani».

 

«C'è un grande seguito dei polacchi per il cinema nazionale; noi produciamo anche molti film commerciali ma il cinema impegnato non è scomparso». Zanussi è già al lavoro su un nuovo progetto, "The Crossroad" «Sarà un film epico, coprodotto con la Russia e ambientato in Manchuria, negli anni '20 prima dell'occupazione giapponese. È un incontro fra culture diverse, Asia ed Europa, ed è una storia che riguarda la mia famiglia: mio zio lavorava per le ferrovie russe».

 

Viktoria Boryana non vuole figli; almeno finchè vive nella Bulgaria comunista. Vorrebbe emigrare negli Stati Uniti ma suo marito non ci sta. Nonostante i ripetuti tentativi di evitarlo, una figlia, Viktoria, arriva lo stesso ma…senza cordone ombelicale.

 

 

Il regime ne approfitta per farne un mito della propaganda interna ma la piccola cresce respinta dall’anaffettività materna come "Bambina del Decennio", icona nazionale di indipendenza e autonomia; almeno fino a quando la caduta del muro segna una svolta nel rapporto parentale.

 

Maya Viktova, da Sofia, classe 1978, dopo l’esordio con il documentario Maiki i dushcheri nel 2006 e il corto Stankase pribira vkushchi, con questa sua terza opera raggiunge la piena maturità d’autrice e regista.

 

Dramma spesso, intenso, asciutto, restituisce pienamente l’intento di mostrare la distanza con la parte più intima e remota della personalità: quella che risale alla fase dell’intimità con la madre. In conferenza stampa la Viktova ha spiegato gli aspetti e le reazioni che il suo ultimo lavoro ha suscitato nei paesi in cui è stato presentato. "In quelli dell’Est Europa i momenti comici sono scivolati tra la quasi totale freddezza mentre in quelli occidentali e in USA si è riso parecchio. Segno questo che il pubblico dell’Est forse non è ancora pronto a lasciarsi completamente il passato alle spalle.

 

Troppo nudo sembra dare ancora fastidio. Mi è spesso stato chiesto il motivo della mia scelta di mostrare la protagonista e sua madre senza vestiti. Viceversa quando ho chiesto all’attrice che interpreta la nonna di usare una controfigura per la scena di nudo lei ha insistito per girarla personalmente.

 

 

Consiglio anche a voi, nel caso proviate imbarazzo ad incontrare qualcuno, di immaginarlo nudo e vedrete che questo trucco funzionerà perfettamente. "

 

Urok (La Lezione) è l’opera prima di una coppia di registi bulgari, Kristina Grozeva e Petar Valchanov i quali, dopo la prima mondiale a Toronto, si sono aggiudicati  il riconoscimento per i registi esordienti allo scorso Festival di San Sebastian . Nedezhda, un’insegnante elementare pienamente cosciente del suo ruolo educativo, si impegna diligentemente a moralizzare la sue classe. Un piccolo furto al suo interno viene trattato con la massima attenzione proprio nel tentativo di trasformarlo in un occasione di insegnamento etico per i piccoli allievi. Ma la vita o meglio, un marito poco all’altezza, costringono la donna a scendere a patti con la propria coscienza, nello sforzo di mantenere la propria dignità personale e integrità professionale. «Una ribellione quieta», a detta degli autori «di un piccolo essere umano contro il mondo mercificato e cinico nel quale viviamo».

 

Impossibile infine non citare  Zivan pravi pank festival (Zivan fa un festivak punk) del serbo Ognjen Glanivic, che così lo descrive:

 

"Zivan è un amico di lunga data. Nel corso degli anni ho avuto modo di conoscerlo come poeta, organizzatore di concerti e festival, conduttore radiofonico, front man della band punk Zivan & the Razorblades, manager, pasticciere, venditore di giornali di strada…Ho cercato di capire che cos’è che trovo interessante in Zivan e sono arrivato alla conclusione che, per quanto diversi siamo, abbiamo gli stessi obbiettivi, e che i miei sogni – il fare film, l’entusiasmo, il metodo , le ossessioni –sono molto simili e vicini alle utopie e agli obbiettivi di Zivan".

 

- Trieste Film Festival 2015, When East Meets West (Europe) di V. B.

 

 


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