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02/05/24 ore

Tfr, una manciata che non serve


  • Antonio Marulo

Tfr in busta paga! Matteo Renzi aveva lanciato l’idea domenica scorsa da Fazio come sasso nello stagno, probabilmente per sondare le reazioni. La levata di scudi in proposito è stata quasi unanime, diversamente da altre proposte annunciate in passato. Pare infatti che i contro di questo provvedimento siano di gran lunga superiori e più consistenti del pro, costituito dal presunto stimolo che una manciata di euro al mese (60 in media, secondo i primi calcoli) possa dare ai consumi e quindi alla ripresa economia.

 

Ed è proprio su questo punto – al netto degli effetti collaterali negativi dell’anticipo della liquidazione - che vale la pena soffermarsi. Come ha già ampiamente dimostrato la storia degli 80 euro, è quanto meno velleitario credere infatti nell’efficacia di una misura simile. Ma tant’è, il premier, nostalgico forse del “ritenta, sarai più fortunato” in cui impattava nei giochi a premio da bambino, ha aperto il dibattito (sterile) su una questione più che altro utile ad alimentare le risse nei talk tv politici.

 

Intanto, il ministro Padoan ci segnala che la recessione in atto è peggiore di quella del ’29. Quindi, possiamo ben dire che si stia nel pieno di una depressione. Uscirne dipende da tanti fattori. Molti esterni, dovuti all’interdipendenza economica e alle scelte che riguardano i diktat imposti dall’Unione che toglie ai governo nazionali, debito pubblico e vincoli di bilancio alla mano, l’arma della politica fiscale espansiva.

 

In attesa di convincere la Germania o fregarsene della stessa, resta per ora provare a dare stimolo agli investimenti privati. In merito, un governo che abbia comunque a cuore le sorti dell’Italia è chiamato a porre rimedio a prescindere, rendendo il terreno fertile per quei capitali (italiani e stranieri) in fuga da anni con riforme ad hoc.

 

Tra queste c’è l’articolo 18, che i benaltristi annoverano fra le questioni di principio per cui immolarsi, quando invece anche solo per principio sarebbe opportuna la rimozione, nell’ambito di una riforma delle regole sul lavoro più articolata, che soddisfi le esigenze di un sistema "dinamico" e privo delle "vischiosità" che lo ingessano - come ci spiega Pietro Ichino.

 

È giusto dire che da sola la riforma sui licenziamenti non crea nell’immediato un posto di lavoro in più; ma può aiutare nel medio periodo, se unita a interventi quanto mai urgenti e necessari che riguardano altri ambiti. Quali? Beh, “i professionisti della tartina” – come li chiama Renzi con qualche ragione - ne parlano da anni tra seminari e convegni. Si tratta di intervenire, nel caso anche con la clava, sulla Pubblica amministrazione, sul sistema fiscale, sulla giustizia amministrativa e non, eliminando i motivi di terrore che avvolgono chiunque oggi pensi lontanamente di fare affari e investire un solo euro in Italia.

 

Certo, ci vuole tempo e il coraggio di toccare fili con accanto il segnale di pericolo di morte. L’operazione risulta ancor più complessa, se si pensa a un Premier che si regge e domina su tutti grazie a un precario equilibrio politico dove ognuno trova forza nella reciproca debolezza.

 

Così passano i mesi nel sostanziale immobilismo coperto da fiumi di parole; e gli unici provvedimenti concreti rischiano di essere gli oboli in busta paga fra sgravi fiscali e anticipi della liquidazione, i quali, se tutti va bene, risulteranno utili per raccattare qualche voto a buon mercato nel caso l’ingovernabilità ci porti alle urne prima dei fatidici "mille giorni".

 

 


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