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05/12/25

Pier Paolo Pasolini: Stato, Potere e Petrolio


Categoria: RIMANDI
Pubblicato Martedì, 11 Novembre 2025 17:04

Quella che segue è la trascrizione dell‘intervento di Domenico Mazza, Dottore di ricerca (PhD) presso il Dipartimento di Scienze politiche e giuridiche dell'Università degli Studi di Messina, al convegno ‘Lavoro, modernizzazione e progresso in Pier Paolo Pasolini a 50 anni dalla morte’ tenutosi nell’aula Buccisano martedì 4 novembre 2025. 

 

 

**************** 

 

 

di Domenico Mazza

 

1. Stato e potere

 

L'intera esistenza di Pier Paolo Pasolini, la sua traccia biografica e autobiografica, fu una costante, drammatica collisione con il potere: lo Stato, il Leviatano dalle braccia tentacolari che impone controllo e autorità, opprimendo ogni potenziale spinta rivoluzionaria.

 

La figura di Pasolini, l'uomo in lotta contro il potere, è segnata da tragedie private e familiari che ne minano la fiducia nell'identità, trasformandolo in un intellettuale eclettico, filosofo, cineasta, ma soprattutto Poeta, l'unica definizione con cui amava presentarsi, persino sul passaporto.

 

Per questa relazione, ho scelto di focalizzarmi inizialmente su un anno cruciale: il 1968. Non ne analizzerò la celebrazione acritica, ma la lucida e dolente analisi in corso d'opera che Pasolini ne diede. Egli comprese che sulle barricate non c'era un fronte univoco. Nelle piazze, tra le strade sottoposte alla violenza, riconobbe con amarezza non i giovani borghesi che frequentavano le aule universitarie, ma i ragazzi che aveva amato, descritto e ritratto con impotenza nelle loro fragilità e nel loro inevitabile destino. Opere come Ragazzi di vita e Mamma Roma sono il prologo ideale al movimento del Sessantotto, ritratti di un sottoproletariato autentico, non ancora omologato.

 

Ebbene, adesso quei ragazzi erano lì, ma Pasolini li ritrovò più tra le forze dell'ordine, quei «ragazzotti» — sue parole — addestrati come «automi» della repressione, figli del popolo usati per reprimere i figli della borghesia. In PCI ai giovani, «poesia civile» che Pasolini indirizzò, se così può dirsi, ai ragazzi protagonisti degli scontri di Valle Giulia, scriveva tra l’altro:

 

«Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte

coi poliziotti,

io simpatizzavo coi poliziotti!

Perché i poliziotti sono figli di poveri.

Vengono da periferie, contadine o urbane che siano.

Quanto a me, conosco assai bene

il loro modo di esser stati bambini e ragazzi,

le preziose mille lire, il padre rimasto ragazzo anche lui,

a causa della miseria, che non dà autorità.»

 

Siamo ad una svolta nel dibattito sul Sessantotto.

 

Nel 1968, gli apparati di polizia serbavano ancora una forte eredità dello Stato fascista. I quadri di comando si erano formati in quel contesto storico non troppo distante, e le forze sottoposte vivevano in un ambiente ideologizzato e con un trattamento economico assai modesto. Proprio a metà degli anni Sessanta, la scarsa attrattiva della carriera di polizia per i ceti più abbienti e scolarizzati spinse il Ministero degli Interni a un arruolamento «di ripiego». Si rivolse a giovani bisognosi, provenienti in gran parte dal Meridione d'Italia, molti dei quali possedevano la sola licenza elementare. A questa figura di «poliziotto-massa», proletario, declassato e manipolato, si contrapponeva l’«operaio-massa» che da potenziale rivoluzionario veniva inesorabilmente trasformato nel consumatore omologato.

 

Questo contesto sociale e l'atto violento che ne scaturì furono l'oggetto dell'analisi più profonda e dolorosa di Pasolini. A poche settimane dagli scontri di Roma, il poeta spostò la sua attenzione sui fatti tragici di Avola, in Sicilia, dove il 2 dicembre 1968 la polizia sparò contro i braccianti in sciopero, uccidendo due persone. In un celebre articolo su Il Tempo del 21 dicembre 1968, Pasolini scriveva:

 

«Ad Avola, cos'ha fatto il Potere (il Potere attuale: quello della democrazia borghese, parlamentare centralistica)? Ha causato quattro vittime. Attraverso un vecchio spirito di carità (che viene però a coincidere con un'attualissima esigenza di democrazia reale), io non saprei dire se sono più infelici i due morti o i due poliziotti che hanno sparato. Ragioniamo un momento: come ha creato, il Potere, i due morti? Discriminando i cittadini in cittadini privilegiati e in cittadini non privilegiati. Creando della «carne umana» dal prezzo alto e della «carne umana» dal prezzo basso.

 

Essere: 1) siciliano (appartenente cioè a una area pre-industriale e preistorica), 2) bracciante (appartenente cioè alla più povera delle categorie povere dei lavoratori), significa essere un uomo dal corpo senza valore. Che si può ammazzare senza troppi scrupoli (la polizia tanto per dirne una, ne ha fatte di tutti i colori contro gli studenti, carne umana di valore medio abbastanza alto, ma non ha mai sparato contro di loro).

 

E come ha creato, lo stesso Potere, i due sicari? È semplice: prendendo due di quegli uomini «di basso costo» (meridionali, potenziali braccianti) e trasformandoli da «poveri» in «sicari» (per far ciò, al Potere basta elargire uno stipendio di quarantamila lire mensili).»

 

In questo brano, Pasolini svela la sua tesi più radicale: la violenza dei fatti di Avola è il risultato di un Potere che discrimina e assegna un «prezzo» diverso alla «carne umana». I braccianti siciliani sono «uomini dal corpo senza valore», che possono essere uccisi impunemente (a differenza degli studenti borghesi). I poliziotti, a loro volta, non sono carnefici, ma vittime dello stesso sistema, uomini a «basso costo» trasformati in «sicari» da uno stipendio misero. Per Pasolini, il dramma del 1968 non è lo scontro ideologico, ma il tragico cortocircuito sociale in cui il sottoproletariato spara contro il sottoproletariato su ordine del Potere borghese.

  

2. Il vuoto del potere in Italia

 

La critica pasoliniana al potere si intensificò durante gli ultimi anni di vita, focalizzandosi sul Potere Democristiano e sulla sua leadership, individuata nelle figure di Fanfani, Gava, Restivo, Andreotti e Moro. La sua polemica, affidata principalmente ai corsivi sul Corriere della Sera, mirava a denunciare il «vuoto di potere» in Italia e il pericolo imminente di un golpe, attraverso articoli profetici e provocatori.

 

Pasolini invocò persino un «Processo» metaforico contro i vertici della DC: «L’immagine di Andreotti o Fanfani, di Gava o Restivo, ammanettati tra i carabinieri, sia un’immagine metaforica. Il loro processo sia una metafora. Al fine di rendere il mio discorso comico oltre sublime […]». Egli riteneva che i leader democristiani – descritti come «ricoverati che da trent’anni abitassero un universo concentrazionario» – non avessero compreso il radicale esaurimento della forma di potere da essi servita, una «millenaristica verità» che solo un Processo avrebbe potuto cristallizzare in una nuova volontà politica.

 

Secondo Pasolini, questo Processo aveva le sue radici nella devastante omologazione culturale imposta dalla società dei consumi. La vittoria del «No» al referendum sul divorzio (1974), ad esempio, non fu vista da Pasolini come una vittoria progressista, ma come l'ennesima prova di una sinistra che si era sottomessa al nuovo spirito «edonistico, americaneggiante e consumistico».

 

L'apice della sua analisi antropologica si raggiunse con la celeberrima metafora della «scomparsa delle lucciole», legata direttamente all'operato di figure come Aldo Moro. Per Pasolini, la rapida estinzione delle lucciole nei primi anni Sessanta – a causa dell'inquinamento dell'aria e dell'acqua – simboleggiava un mutamento traumatico, un'irreversibile degradazione dei valori che aveva trasformato gli italiani in un «popolo degenerato, ridicolo, mostruoso, criminale». Cruciale in questa lettura è la distinzione con il fascismo storico: «Cosa che non era accaduta durante il fascismo fascista, periodo in cui il comportamento era completamente dissociato dalla coscienza». Il nuovo potere della civiltà dei consumi, a differenza del precedente, era riuscito a ricreare e deformare la coscienza del popolo in maniera totalitaria.

 

La provocazione pasoliniana non mancò di innescare una dura replica di Giulio Andreotti su Il Corriere della Sera (2 febbraio 1975). L'allora leader democristiano si difese sostenendo che «Non è mai esistito un regime democristiano», rivendicando i meriti della DC nella ricostruzione democratica e nelle riforme (agraria, Cassa del Mezzogiorno) e sottolineando l'insostituibilità del partito nell'Italia contemporanea.

 

Il tragico epilogo dell'epoca pasoliniana e della DC si concretizzò nel rapimento di Aldo Moro (1978). Fu Leonardo Sciascia a raccogliere idealmente il testimone pasoliniano, riprendendo nel suo capolavoro L’Affaire Moro l’immagine delle lucciole. Sciascia vedeva Moro come l’unico, l’«uomo meno implicato» nelle stanze del Palazzo, l’ultimo a essersi aggirato in quegli spazi ormai svuotati e moralmente sgomberati. Il dramma di Moro, costretto a misurarsi con la realtà concreta della prigionia, svelò, secondo Sciascia, l'intransigenza legalitaria del PCI, un partito che si attestava su posizioni di «destra hegeliana» e che, di fatto, controllava il terrore ideale della dirigenza DC, incapace di agire e pronta ad abbandonare il proprio leader.

 

La lettura di Pasolini trovò conferma inaspettata anche nel filosofo cattolico Augusto Del Noce. Questi giunse a dichiarare «Pasolini aveva ragione» nel denunciare un «totalitarismo di forma nuova» che realizzava l'intenzione fascista di creare una nuova umanità attraverso la distruzione della tradizione. Del Noce, tuttavia, si discostava da Pasolini sull'idea di una continuità diretta tra vecchio fascismo e DC, temendo che tale analogia potesse estendere il concetto di fascismo a tutto il Risorgimento. Nonostante le riserve, il filosofo rimase amareggiato per la mancata volontà della parte cattolica di cogliere la forza profetica della critica pasoliniana.

 

3. Pasolini, il ribelle incompiuto

 

Le polemiche di Pier Paolo Pasolini con la DC trovarono un'eco sorprendente e autorevole in Augusto Del Noce, che noi tutti conosciamo come uno dei maggiori filosofi cattolici e critico radicale della modernità. Nel suo articolo «Pasolini, il ribelle incompiuto» (Il Tempo, 14 febbraio 1975), Del Noce riconobbe la straordinaria lucidità della diagnosi pasoliniana, pur dissentendo dalle conclusioni ideologiche.

 

Del Noce afferma che l'originalità e il valore del pensiero di Pasolini, specialmente nell'articolo «Il vuoto del potere in Italia», risiedono nell'aver compreso che la crisi italiana post-1960 non è un semplice vuoto, ma una «rivoluzione del sì a una nuova classe di potere reale». Pasolini, secondo il filosofo, ha colto tre verità fondamentali:

 

 

In sintesi, Del Noce giunge alla celebre conclusione: «Pure, Pasolini ha ragione: questo totalitarismo di forma nuova non si imparenta né al comunismo né al nazismo».

 

Nonostante questa convalida sulla natura del nuovo potere, Del Noce individua l'«errore» pasoliniano nel tentativo di tracciare una continuità storica e valoriale:

 

 

Del Noce definisce Pasolini un «ribelle incompiuto». Egli ha avuto il coraggio di opporsi alla «orribile dittatura culturale» (che il filosofo chiama neo-libertina), ma non ha criticato le ragioni filosofiche più profonde di tale fenomeno.

 

A causa di questo errore ideologico e del contesto in cui si muove, Pasolini rischia di rimanere «un ribelle entro il sistema», e le sue verità originali (sulla natura totalitaria del nuovo potere) rischiano di apparire come meri paradossi voluti o espressioni di una religiosità popolare friulana destinata a estinguersi. Il merito di Pasolini sta, dunque, nell'aver espresso la diagnosi in modo incisivo per un largo pubblico, ma il suo limite è l'incompiutezza nel fornire una vera critica liberatrice.

 

Se, dunque, Del Noce considerava Pasolini un «ribelle incompiuto» per ragioni strettamente filosofiche e ideologiche (l'errore storico sulla continuità DC-fascismo e il positivismo), un altro tipo di critica giungeva dal fronte liberal-moderato e patriottico. Domenico Bartoli, celebre firma de Il Resto del Carlino e Epoca, si fece portavoce di una visione che interpretava la critica pasoliniana come un attacco indiscriminato all'identità nazionale. Nel suo saggio «Gli italiani nella terra di nessuno. Il potere democristiano e l’assedio comunista» (marzo 1976), Bartoli criticava, seppur indirettamente, quel vasto circolo di intellettuali che definiva «patrioti capovolti».

 

Secondo questa prospettiva, la radicalità di Pasolini — che aveva definito gli italiani «un popolo degenerato, ridicolo, mostruoso, criminale» — non era un'analisi antropologica, ma l'espressione di un «anti-italismo» o «sciovinismo al contrario». In questa ottica, la critica pasoliniana, pur partendo da basi ideologiche di sinistra, si risolveva in una colpevolizzazione totale e indistinta degli «italiani in generale, dell’Italia, nazione, popolo, stato», un atteggiamento giudicato privo di costruttività e tipico di chi, pur agendo come un dissidente, finiva per alimentare la crisi anziché indicare soluzioni.

 

Questo saggio, pubblicato alla vigilia dei governi di «compromesso storico», cristallizza la sensazione di un Paese allo sbando e isolato. La figura di Pasolini, dunque, emerge come un punto di scontro non solo per le sue tesi politiche (l'attacco alla DC), ma per la sua profonda e radicale negazione morale di un intero sistema-Paese, negazione che la cultura laico-risorgimentale non poteva accettare.

 

4. Considerazioni finali su questa parte di relazione

 

Le vicende culturali e intellettuali che interessarono Pier Paolo Pasolini nel cruciale decennio tra il Sessantotto e il suo assassinio, mostrano la sua trasformazione da critico sociale a «profeta apocalittico» della modernità italiana. Egli non fu solo il poeta delle borgate, ma un «corsaro» che, gettando il proprio corpo nella lotta, denunciò la vera mutazione del Paese: l'avanzare del totalitarismo consumistico.

 

La sua tesi, dal «poliziotto-massa» di Avola al «vuoto del potere» democristiano, fu una costante denuncia dell'omologazione culturale che aveva distrutto l'autenticità del sottoproletariato e corrotto la coscienza nazionale. La «scomparsa delle lucciole» è la metafora finale di questo trauma antropologico, in cui l'Italia è vista come un «popolo degenerato».

 

Pasolini, allora, si configurò come la coscienza critica scomoda di una nazione che non voleva guardare la propria crisi. Il suo processo non fu contro il fascismo che fu, ma contro il «fascismo che sarà», incarnato da una classe dirigente inetta (i politici democristiani) e dalla progressiva distruzione dei valori da parte del Potere dei Consumi.

 

5. Petrolio: la mappa del potere occulto in Italia

 

L'analisi della critica pasoliniana al Potere e all'omologazione trova la sua espressione più oscura e definitiva nel romanzo incompiuto Petrolio. Concepito come un'opera-mondo, il romanzo è il testamento profetico che cerca di dare una forma narrativa e mitica a quel «vuoto di potere» e a quel «totalitarismo di forma nuova» che Pasolini aveva denunciato nei suoi articoli corsari.

 

In Petrolio, l'autore non si limita più ad attaccare i volti pubblici della Democrazia Cristiana, ma tenta di svelare la realtà ontologica del Potere: un sistema invisibile, onnipresente e irrazionale, che agisce attraverso la corruzione e la manipolazione delle coscienze. Il protagonista, Carlo, un ingegnere dell'ENI (simbolo del capitalismo di Stato e dell'industrializzazione che distrusse il mondo delle «lucciole»), sperimenta una metamorfosi in «Una» (il doppio femminile e trans-identitario), utilizzando la sessualità estrema non per piacere edonistico, ma come un disperato strumento di conoscenza e critica del mondo.

 

Il romanzo mette in scena un'Italia dominata da una borghesia neofascista e da compiacenti complotti industriali e politici, fungendo da vero e proprio atlante della corruzione.

 

Si può leggere Petrolio come l'inchiesta radicale che Pasolini, il «ribelle incompiuto» di Del Noce, non poté completare, ma di cui lasciò il disegno profetico: la vera tragedia italiana non era la lotta di classe visibile, ma l'azione sotterranea e silenziosa di un Potere che, attraverso il petrolio e il consumismo, aveva definitivamente annullato la distinzione tra bene e male, tra sacro e profano, lasciando dietro di sé solo la degradazione antropologica che aveva anticipato.

 

- Audiovideo convegno Università di Messina: ‘Lavoro, modernizzazione e progresso in Pier Paolo Pasolini a 50 anni dalla morte (Agenzia Radicale)

 

 



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