di Sante Cavalleri
(da Faro di Roma)
Il Tribunale vaticano ha emesso una sentenza destinata a lasciare il segno nella lunga e complessa vicenda giudiziaria e mediatica che ha investito il cardinale Angelo Becciu. Nicola Gianpaolo, sedicente postulatore di cause dei santi e figura centrale nelle ricostruzioni televisive utilizzate dalla trasmissione Report, è stato condannato a tre anni e sei mesi di reclusione per calunnia, con interdizione dai pubblici uffici per lo stesso periodo e l’obbligo di risarcire 15mila euro al porporato, riconosciuto come parte lesa. Il Tribunale ha disposto anche la rifusione delle spese processuali.
La sentenza arriva dopo anni di illazioni e campagne mediatiche che hanno contribuito a gettare un’ombra sul nome del cardinale Becciu, accusato pubblicamente di condotte mai dimostrate e oggi riconosciute proprio come false.
Gianpaolo — figura ritenuta credibile dagli autori di Report e presentata come testimone di rilievo nell’inchiesta televisiva — è stato ritenuto responsabile di aver diffuso dichiarazioni calunniose che hanno alimentato una narrazione infondata e gravemente lesiva della reputazione del cardinale.
La soddisfazione dei legali del cardinale
Gli avvocati Fabio Viglione e Maria Concetta Marzo, difensori del cardinale Becciu, hanno accolto la decisione con soddisfazione, sottolineando il valore della pronuncia: «È stata accolta la nostra tesi sulla configurazione del reato, peraltro correttamente sostenuta dal Promotore di giustizia. Riteniamo che questa sentenza sia importante perché attesta che il cardinale Giovanni Angelo Becciu è stato ingiustamente e falsamente accusato di gravi condotte mai assunte, con conseguente rilevante danno reputazionale».
Per il porporato, la sentenza rappresenta un passo fondamentale nel percorso di riabilitazione dopo anni di sofferenza personale e mediatica. Il Tribunale ha infatti riconosciuto l’assoluta infondatezza delle accuse e la volontà diffamatoria che ha guidato le dichiarazioni di Gianpaolo, confermando la completa estraneità del cardinale ai fatti contestati.
Il ruolo dei media e la responsabilità dell'informazione
La vicenda solleva inevitabilmente interrogativi sulla qualità del giornalismo d’inchiesta e sulla responsabilità del servizio pubblico. Nicola Gianpaolo era stato presentato da Report come testimone chiave per sostenere un impianto accusatorio dimostratosi — almeno nella parte che lo riguardava — privo di fondamento e basato su dichiarazioni oggi riconosciute come calunniose.
In un contesto informativo segnato da crescente polarizzazione e da una competizione esasperata per l’audience, il caso invita a riflettere sulla fragilità dei meccanismi di verifica e sulla pericolosità di dare credito a fonti non affidabili. Le parole, soprattutto quando amplificate da un mezzo potente come la televisione, possono diventare armi capaci di incidere profondamente sulla vita delle persone.
È quanto ha voluto ricordare sul sito Kirazym.org anche Mario Becciu, fratello del cardinale, docente universitario e psicoterapeuta, che dopo aver espresso solidarietà a Sigfrido Ranucci per il recente attentato subito, ha però stigmatizzato il metodo e il tono dell’inchiesta televisiva: «L’inchiesta condotta servendosi di un burattino condannato in primo grado dal tribunale Vaticano dimostra la faziosità, il senso di impunità e un uso patologico del servizio pubblico. Questa condanna dimostra la colossale calunnia ordita con un dispiegamento di forze massmediatiche incredibili per distruggere una persona innocente. Vorrei ricordare a Ranucci che, come cita il Libro del Siracide (28,18), ‘ne uccide più la lingua che la spada!’».
Una sentenza che apre una nuova fase
Il verdetto del Tribunale vaticano non chiude soltanto un processo giudiziario, ma riapre una discussione più ampia sulla tutela della dignità delle persone e sull’uso responsabile degli strumenti mediatici. Per il cardinale Becciu rappresenta un riconoscimento sostanziale della propria innocenza e, al tempo stesso, un monito su quanto possano essere devastanti le accuse infondate quando vengono diffuse senza la necessaria prudenza.
La sentenza odierna segna dunque un momento di verità, che richiama tutti — magistrature, media e opinione pubblica — a una più rigorosa cultura della responsabilità e della giustizia.
(da Faro di Roma)