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26/04/24

Bonino, la speranza per un’Europa senz’anima


Categoria: RIMANDI
Pubblicato Sabato, 04 Maggio 2013 17:02

Stati Uniti d'Europa e d'America: è un vecchio cavallo di battaglia radicale a cui la rivista politica Quaderni Radicali dedicò nel numero 85 un approfondimento che, fra gli altri, ospitava un lungo intervento di Emma Bonino in conversazione con Giuseppe Rippa che qui di seguito riproponiamo.

Inadeguatezza dell'Europa, lotta al terrorismo internazionale, rapporti col mondo arabo e musulmano, multicuturalismo e integrazione, l'ingresso della Turchia nella Ue, il ruolo dell'Onu...questi i temi trattati, ancora di grande attualità, che la leader radicale si troverà in agenda da neo-ministro degli Esteri.


 

DAI NUOVI 10 LA SPERANZA PER UN'EUROPA SENZ'ANIMA?

 

Emma Bonino conversa con Giuseppe Rippa

(Quaderni Radicali 85 - maggio/giugno 2004)

 

(Rippa) La vicenda irachena ha posto in luce il luogo centrale dello scontro. In questo contesto è emerso il carattere “defilato” dell’Europa. Ciò è il prodotto di una sua incapacità a formarsi come soggetto dialettico, oppure è conseguenza di una incapacità a prendere coscienza della drammaticità della crisi?

 

Si è più volte richiamato un momento simbolico: all’indomani dell’11 settembre 2001, il francese Chirac fu il primo ad abbracciare Bush. E tuttavia, in quella occasione si è evidenziato quanto si sia stati incapaci, non dico di accogliere il dolore americano, ma di farlo nostro, dentro una traiettoria che descriva i presupposti da cui far nascere l’ipotesi degli Stati Uniti d’Europa e d’America. Vale a dire l’obbligatorietà di una traiettoria che non può vedere Europa e USA divisi di fronte allo scenario che si viene a configurare.

 

Anche rispetto alla tesi del multi-centrismo e del multi-culturalismo qual è il tuo punto di vista sull’Europa, che appare oggi incapace, per motivi strutturali e culturali, a prendere coscienza di questa via obbligata?

 

(Bonino) La mia impressione è che l’Europa a quindici, con l’asse franco-tedesco, non ha fatto mente locale di voler essere un soggetto politico e quindi di avere una politica estera di difesa comune. Non ce l’ha: davanti alle sfide che abbiamo di fronte, siamo ancora qui, con quindici eserciti nazionali i cui costi lascio immaginare…

Del resto, anche se costassero poco resterebbero sostanzialmente inutili, tanto è vero che persino per la Bosnia, quando a un certo punto dovevamo semplicemente trasportare truppe e materiali, alla fine abbiamo chiesto l’intervento americano.

 

L’Europa d’oggi, a parte le posizioni francesi col multi-centrismo, il multi-polarismo, non credo davvero che abbia chiara la consapevolezza propria di Jean Monnet o di Spinelli e cioè che l’Alleanza transatlantica è il “sine qua non”…

Forse perché parte dell’Europa sottovaluta le questioni e non ha ben chiaro qual è il problema che abbiamo di fronte e qual è l’entità della minaccia che va fronteggiata.

 

Ti chiedo: anche nel suo particolarismo, recentemente sono emerse minacce concrete proprio per la Francia in relazione alla vicenda del velo (vedi il rapporto della Commissione, presieduta dall’ex ministro Bernard Stasi) che rendono esplicito questo aspetto. Eppure non muta assolutamente nulla…

 

Non ancora! Perché, per esempio, la tesi che si riferisce alla realtà delle “cellule dormienti” e molte altre cose che erano chiare sono sottovalutate: l’ultimo libro di Magdi Allam, che vale la pena leggere, la dice molto lunga in proposito. Secondo me l’entità della minaccia non è stata capita e, se guardiamo la Spagna, continua a non essere capita neppure adesso. Ancora non siamo in grado di far fronte alla minaccia, militarmente parlando.

 

Sembra un paradosso che si consuma così: noi ce ne andiamo a condizione che gli Americani restino. Alla fine la posizione prevalente è questa: non è “veniamo via tutti”, ma “noi veniamo via, tanto non sono i nostri tremila militari che cambiano la situazione sul terreno, a condizione che gli Americani restino”.

 

In questo momento si ha la sensazione che l’Europa non voglia avere responsabilità di politica estera comune o di politica di difesa comune. È comunque scritto nero su bianco nella cosiddetta Costituzione, che è veramente l’uso abusivo di un vocabolo perché, a ben guardare, è un normale trattato come molti altri, che, a quanto ho capito verrà a breve firmato: lo ratificheranno al vertice di giugno in Irlanda.

 

In questo nuovo trattato è scritto che abbiamo fatto un po’ d’ordine, ma che per la politica estera ognuno va per sé: la cacofonia è garantita, l’inefficacia è matematica. La mia speranza è che tutto questo sia messo in crisi, intanto numerica, ma anche “politica”, dall’ingresso dei nuovi dieci Paesi. Forse finalmente, come per l’agricoltura e il commercio internazionale, ci si renderà anche conto che in un’Europa a venticinque Paesi, con l’unanimità, ci stiamo scavando la fossa da soli.

 

Diversamente da altri che lo temono, vedo l’ingresso dei dieci (per l’immigrazione ecc.) come un dato che può rimettere in crisi positivamente tutta una serie di vecchi assi, vecchie leadership ammuffite, per crearne una nuova, vera, efficace…

 

Proprio nell’assenza di una leadership europea si può individuare la causa dell’inadeguatezza del soggetto Europa in qualunque tipo di dialettica venga a posizionarsi. Allora, secondo te, quale tipo di leadership si può intuire, anche nell’Europa allargata, nella condizione di una maggiore consapevolezza? Tu hai descritto, per esempio, il diritto di veto a mo’ della Polonia come un elemento di auto-castrazione…

 

Del Lussemburgo… Perché per mettere il veto si trovano sempre paesetti piccoli e sono i grandi che lo fanno fare per interposta persona.

 

Che convizioni ti sei fatta, dopo aver avuto responsabilità di governo ed essere stata anche molto efficace, anche se ti sei dovuta muovere un po’ a latere…

 

L’aiuto umanitario è materia comunitaria, quindi io ne avevo competenza piena. Avevo il diritto di proposta…

 

Con uno spazio di praticabilità immenso…

 

Ero io che dovevo fare delle proposte; anzi, nelle urgenze decidevo da sola ed ero responsabile a valle e non a monte, cosa che nei temi di politica estera non avviene: il commissario non ha diritto di proposta.

 

Quindi sono i nuclei centrali ad essere impediti nella loro esecutività…

 

Il fatto è che non c’è proprio la procedura. Per ragioni politiche, non perché non si sa quale sia. Per esempio, sulle materie in cui si vota a maggioranza qualificata, siano esse le patate, i pomodori, il commercio internazionale e quant’altro, si assiste a riunioni del consiglio dei ministri che negoziano tutta la notte, perché sanno bene che la decisione che passa a maggioranza qualificata è vincolante per chi ha votato contro.

 

Sulla politica estera tutto questo non c’è: non c’è chi debba fare una proposta, la commissione non può fare proposte di politica estera. È tutto all’unanimità, persino l’agenda, per cui può alzare la mano il Lussemburgo e dire: “No guarda, io di questo non voglio discutere, non se ne parla proprio”; e alla fine anche il comunicato finale passa all’unanimità. A forza di trovare questa unanimità, è talmente vuoto nel suo contenuto che non interessa leggerlo neppure a me, figurati ad Al Qaeda…

 

Mentre invece, paradossalmente – come accennavi in una recente intervista – c’è, non dico un piano strategico, ma un’intelligenza che muove l’altro fronte e che sta utilizzando l’informazione come elemento dirompente all’interno dello schieramento occidentale. A tutto tondo, non soltanto per il modo in cui centellinano le informazioni e le riversano nelle dialettiche interne dei Paesi…

 

Il “regime change” loro l’hanno capito benissimo, infatti stanno agendo in tal senso. Tieni conto che in Occidente registriamo rispetto ai mezzi di informazione arabi, come Al-Jazeera, Al-Arabia, ecc, un vuoto di conoscenza formidabile. Tutti questi gentili signori dei media arabi parlano perfettamente l’inglese e il francese: si piazzano davanti a Bbc e Cnn, leggono tutti i giornali e sanno chi respira, chi non respira… Noi tutto questo non lo facciamo: non mettiamo nessuno davanti ad Al-Jazeera o Al-Arabia con un minimo di senso politico … Tanto che io per due anni continuavo a strillare e a dire: “Guardate, qui il vero cancro di tutta questa situazione è Al-Jazeera”.

 

In particolare dal dicembre 2001, quando probabilmente c’è stato un passaggio di proprietà, com’è stato del resto confermato. Al-Jazeera, guidata dai Fratelli musulmani, è di fatto il megafono di Bin Laden- Il che portò persino ad una polemica, ad una critica da parte degli egiziani contro Al-Jazeera.

 

In Occidente abbiamo un gap politico per cui non ci siamo attrezzati per capire, non conosciamo neanche quali sono le differenze tra di loro, qual è la differenza tra Al-Zarqawi e Bin Laden; chi è chi; che sta succedendo, quali sono i loro rapporti con le frange estremiste indonesiane o filippine, piuttosto che marocchine…

 

Al contrario loro che questa conoscenza della nostra classe politica, in tutti i dettagli internazionali, ce l’hanno perfettamente e quindi la sfruttano; mentre quasi nessuno dei nostri ambasciatori parla arabo, quasi nessuna delle nostre ambasciate ha una rassegna stampa araba…

 

Vorrei citare un esempio che è molto in linea con quello che stai dicendo: Tariq Ramadan, figura prestigiosa tra gli intellettuali islamici, autore di un importante testo (Islam, the West and the Challenges of Modernity), figlio di un militante dei Fratelli Musulmani, nipote di Hassan al-Bannà, fondatore dei Fratelli Musulmani e martire della causa, una delle figure più influenti della storia dell’islam, è addirittura professore in Svizzera. In questo senso, è un atto di imbecillità non prendere coscienza di tutto questo insieme di cose, oppure siamo impreparati a fronteggiare questa nuova dinamica?

 

Credo che questa dinamica ci è cresciuta in casa, non l’abbiamo vista; il fallimento della politica dell’integrazione in Francia è tipico; abbiamo lasciato che le moschee diventassero anche distributrici di servizi sociali…

 

Il concetto di multi-culturalismo, che diventerà sempre più un elemento di discriminazione, si è rivelato fallimentare rispetto a certe dinamiche…

 

Controproducente, direi. Sostanzialmente noi abbiamo lasciato riprodurre nei nostri Paesi i diritti collettivi, invece di imporre anche a loro la promozione dei diritti individuali. Di qui il ruolo dell’imam, che, come ben spiega Magdi Allam, non è un leader religioso, bensì un funzionario – l’imam è una “funzione”, non è assimilabile al nostro vescovo, per intenderci, perché l’Islam non ha l’interpretazione unica e tutte le cose che ben sappiamo.

 

Quando la Francia ha lasciato nei ghetti e nelle banlieue tutti questi ragazzi che per il rinnovo del visto e per la distribuzione dei servizi sociali dipendevano dall’imam, cioè dalla moschea, li ha lasciati irretire, facendoli crescere in ghetti separati dal resto della società, che è uno dei problemi del multi-culturalismo…

 

Questa è una realtà che c’è cresciuta sotto gli occhi e che non abbiamo certamente visto prima del 2001. Quando finalmente è saltato il 2001 ed è venuto fuori che erano appunto islamici o islamisti che hanno vissuto però con passaporto tedesco o di altri Paesi a costituire una minaccia, abbiamo fatto molta difficoltà a renderci conto di cosa succedeva.

 

Che tipo di soggetto sociale è venuto fuori da questa situazione? Come ha influito questa nostra assenza nelle dinamiche comportamentali di questo soggetto che poi va a fare gli attentati, un soggetto frantumato, privo di una identità?

 

Che però, manovale o non manovale, ha aderito ad un progetto politico che Bin Laden ci spiega essere molto politico: lui ha in testa un progetto politico chiaro, quello della società chiusa, islamista, contro la società aperta. Semplice, no? Noi ci siamo invece infilati in una serie di stupidaggini: la prima è che il terrorismo sarebbe un fenomeno reattivo rispetto all’imperialismo americano…

 

Che sia il prodotto del pauperismo…

 

Posto così in Benin dovrebbero esserci milioni di terroristi. Ma non è così: tutta la classe intermedia e anche la manovalanza finale sono tutte persone di reddito medio-alto. Quindi è una frustrazione di tipo politico, l’adesione a un progetto politico. Tra quelli che pensano che ogni musulmano sia un pericoloso estremista e quelli che invece scusano tutto perché vedono il terrorismo come fenomeno reattivo anziché come fenomeno politico, noi abbiamo perso secondo me la concezione di quello che sta avvenendo.

 

Deduco questo perché non c’è nessuna reazione adeguata: non c’è la reazione militare, secondo me non perché qualcuno pensasse che non era necessaria, ma perché comunque se ne occupano gli Americani… Secondariamente: c’è un genocidio in corso in Sudan, no? Il Sudan non è la Cina, non è la Russia… Tu vedi un’iniziativa europea? No. Non un’iniziativa politica, ma neanche umanitaria! Io non so dove sia il Commissario per gli aiuti umanitari, sarà in viaggio mille miglia per non so dove… Non si vede una iniziativa seria, nemmeno umanitaria in base alle Convenzioni di Ginevra e delle Nazioni Unite. Per cui, se le crisi sono davvero grandi, militarmente se ne occupano gli Americani perché noi comunque non siamo in grado. Altrimenti di ciò che ci succede attorno, nel mondo poco ci importa: in realtà gli europei non è che vogliano la pace, vogliono solo stare in pace.

 

Cosa che, dopo l’11 marzo, al di là del tentativo di camuffarlo, non può essere valida neanche più per l’Europa. Così come prima accennavamo al fatto che la Francia non è fuori dal mirino nonostante abbia scelto, per motivi che possono essere molteplici, i suoi interessi in Iraq e tutto il resto, una via scellerata e assolutamente irresponsabile…

 

Non solo. Ma un tentativo di essere poi vista come la leadership del mondo arabo, che non voleva l’intervento…

 

Che è assolutamente improprio. In questa chiave qui, però, diventa importante ragionare su un punto: si afferma che bisogna ritirare le truppe, ho addirittura ascoltato in queste ore dichiarazioni secondo cui gli stessi Americani dovrebbero andar via, e questo, come tu hai più volte sottolineato, sarebbe un atto di scelleratezza, perché ne verrebbe fuori non solo una guerra civile, ma, quello che più conta, rispetto alla situazione sciita, sarebbero gli stessi Iraniani e gli altri della regione a non essere disponibili a passare da uno Stato canaglia a uno Stato purulento fino all’inverosimile. In questo tipo di dinamica, l’Europa dimostra di coltivare in sé uno sciocchezzaio così avanzato da non avere neanche la coscienza di ciò che sta avvenendo.

 

L’Europa non ha mai chiesto il ritiro di alcunché, come istituzioni europee intendo, perché poi come singoli Stati, a livello elettorale, ognuno ha detto le sue stupidaggini, se ne sono sentite di cotte e di crude…

 

Questa è un’altra conferma della mancanza di coscienza, perché se ognuno ne fa un utilizzo elettorale interno vuole dire che non ha coscienza europea complessiva, del ruolo che deve svolgere l’Europa…

 

Io sono arrivata al punto di pensare che i governi europei attuali questo senso di una assunzione di responsabilità in politica estera non lo vogliano proprio, in quanto Europa. Il giornale «L’Indipendente» ieri ha affermato chiaramente che l’Europa è solo una potenza economica. Almeno qualcuno lo dice! Sotto sotto è quello che si fa: però poi tutti invocano l’Europa quando all’Europa non danno neanche le procedure necessarie per dire “Buongiorno”.

 

Io avevo proposto di utilizzare per l’unione diplomatica e militare le stesse procedure che si sono fatte per l’unione economica e monetaria, cioè una decisione del Consiglio che all’epoca disse: “Si convocano le banche centrali e si decide come si deve andare con le tappe, la convertibilità…” Io avevo proposto la stessa cosa, ma ci voleva una decisione del Consiglio, poi come si fa si fa: si convocano tutti i Capi di Stato Maggiore, si fa l’inventario delle forze armate esistenti nei quindici Paesi, etc. etc.

Il problema è che non c’è proprio la volontà politica di fare questo e l’unica speranza che io ho è che arrivando i dieci la situazione non sia più tenibile; se poi arriva la Turchia, come io spero e mi auguro…

 

Il locomotore economico doveva essere, sia pure fissato nella consapevolezza diffusa dei partner, un elemento, come tu hai indicato, che trasferito sul piano militare poteva incominciare a dare sostanza a tutto l’impianto politico, cosa che invece viene interrotta perché la volontà in questo senso non c’è. Rispetto a questo tipo di scenografia, un’Europa che non si pone il problema della leadership, che presenta questi buchi neri terrificanti, che va al voto completamente inconsapevole della drammaticità delle questioni, in questo momento con l’allargamento agli altri dieci partner, come e su quale traccia può evolversi?

 

Abbiamo più volte evocato simbolicamente il concetto di Stati Uniti d’Europa e d’America che vuole contenere in sé una prospettiva che, per ora è soltanto simbolica, ma che può descrivere una certa ipotesi. Quali sono le transizioni possibili? Non si tratta soltanto di un montante anti-americanismo: è un’assenza di cultura di governo complessiva, manifesta nell’affermazione di un multi-centrismo. Manca una volontà in tal senso. Durante l’esperienza di governo in Europa come pure nella partecipazione alle istituzioni europee, hai individuato una traccia minima che possa far guardare a questa prospettiva simbolica degli Stati Uniti d’Europa e d’America? Dov’è insediato il nucleo possibile di mutamento in questa situazione europea così assolutamente assente dal contesto?

 

Temo che non ci sia, tant’è che adesso, per esempio, dovendo ridisegnare la Commissione perché si passa da venti commissari a venticinque, i portafogli vanno spezzettati; probabilmente scinderanno l’agricoltura con la pesca, ma dubito che gli venga in mente che serve un Commissario per il Mediterraneo…

 

La cui funzione sarebbe complessiva, perché andrebbe a cogliere molti aspetti…

 

Perché, per esempio, quando si decise l’allargamento, poi si disse “Però una politica senza un aggancio istituzionale non la fa nessuno”, quindi ci fu il Commissario all’allargamento coi suoi strumenti, il diritto di proposta, e quindi è la Commissione che va di fronte al Consiglio dei ministri con un rapporto e dice “la Polonia sì, l’Austria sì” a seconda dei criteri. Tutto questo per il mondo arabo e per il Mediterraneo non c’è. Ci fu nel 1995 Barcellona con la leadership di Felipe Gonzales, ma finito Felipe Gonzales…

 

Il paradosso vuole che Felipe Gonzales, che s’era rifugiato dietro al presunto candidato perdente Zapatero, si ritrova oggi con una leadership che è agli antipodi di quello che aveva affermato…

 

Non vedendo neanche queste attenzioni, non capisco dove sia questo nucleo, attualmente. Io non so dove andare a cercarlo, perché non vedo mezza iniziativa, non vedo niente…

 

Uno degli aspetti che hanno caratterizzato la politica dei radicali è sempre stato quello di imporre con uno sforzo sovrumano all’agenda politica, secondo il metodo democratico, la centralità di temi che avevano in sé non soltanto il mutamento contingente, ma una possibilità di rivoluzionare, di terremotare tutto lo scenario.

 

Ora, di fronte a questa situazione che nei fatti non consente ciò, sei dislocata in una posizione di pessimismo, che tuttavia non è mai disattenzione rispetto agli atti da poter compiere: ma davvero non intravedi nessuna ipotesi concreta? Perché qui diventa importante tentare di capire quali sono le opportunità, altrimenti la stessa vicenda dell’Europa finisce per cadere in una spirale negativa. Quale sforzo pensi di poter fare per indicare una ipotesi possibile?

 

Essendo l’obiettivo finale quello dello slogan “Stati Uniti d’Europa e d’America”, un primo passo sarebbe, per esempio, un’Europa che magari non si occupa più di agricoltura… perché poi il federalismo americano è questo… no?

 

Quindi bisogna agire più sull’Europa per portarla a un livello di consapevolezza tale da preparare…

 

Eh sì. Perché forse avendo fatto il mercato unico non è più il caso di occuparsi di banane: tutto questo può essere decentralizzato. L’ipotesi federalista americana è che Washington abbia poche competenze, ma quelle essenziali: Esteri, Difesa e il primo impianto sostanzialmente fiscale, economico. Tutto il resto, persino il penale, per esempio, varia da Stato a Stato. La Sanità pure. L’Istruzione pure. Mentre invece noi, essendo partiti dal punto economico, oggi dovremmo renderci conto che il mercato interno è compiuto, e che vanno messe in comune le cose che contano degli anni 2000. E questa volontà non c’è.

 

Quello che stiamo cercando di fare è di prendere, come si dice, delle issues proprio in questa direzione, per cui per esempio uno degli impegni di cui più mi sto occupando in questo momento è la Turchia: dico questo perché l’ingresso della Turchia sarebbe la prima dimostrazione vera, consistente – perché non è Malta, non è Cipro, non è la Slovenia – che il progetto europeo è un progetto politico e non un progetto né religioso né territoriale. E che quindi è un progetto politico che mette insieme chi è democratico, laico… Ed è fondamentale. Lo è nella fattispecie, perché non possiamo chiudere la porta a ottanta milioni di musulmani dicendogli “Fatevi una bella confederazione con l’Iran, col Turkmenistan, etc.” .

 

Tra l’altro, l’ingresso di ottanta milioni di persone comporterebbe una messa in discussione delle nostre procedure, perché avrebbero lo stesso potere e peso della Germania; questo, tra l’altro, è uno dei motivi per cui la destra tedesca non li vuole. Mentre si sta creando in Europa tutta una grande corrente anti-Turchia, che va dal governo austriaco alla destra tedesca, Juppé, Chirac, gli olandesi e chi più ne ha più ne metta. Amato, i prodiani non hanno neanche citato la Turchia nel loro cosiddetto “progetto comune”, quindi non so bene cosa pensino… Evidentemente non lo ritengono un passaggio fondamentale, che pure è previsto per ottobre e dicembre.

 

Questo è il problema quando si parla di consapevolezza della classe politica: questi non riescono neanche a capire che vogliono fare con la Turchia a ottobre e dicembre! Allora, essendo quello l’obiettivo, ciò che noi stiamo cercando di fare con le forze che abbiamo, e la possibilità di azione dipenderà anche da quanti parlamentari avremo, è puntare alla Turchia, al Commissario per il mondo arabo e ai Balcani, perché un altro problema sono i Balcani: qui ci allarghiamo con un buco nero all’interno che non si capisce che destino debba avere… Tutte cose che in qualche modo, positivamente a mio avviso, dovrebbero rimettere in crisi di crescita l’Europa in quanto tale. Perché forse l’ingresso della Turchia, anche se la Turchia non lo vuole, avrebbe una forza d’urto tale da far saltare una serie di equilibri obsoleti, inadeguati al futuro.

 

La conferenza di Sanaa come si collega a questa progettualità complessiva? Oggi viene accolta come una delle tracce, anche se non analizzata da valenti analisti che pure hanno messo in opera atti. Ma prova a dare una rappresentazione di collegamento con quello che hai detto ora a proposito della Turchia e di questa azione concentrica terremotante e di costruzione – senza questa azione terremotante non si può costruire perché le situazioni paralizzanti sono talmente evidenti da non consentirlo. Come si inserisce la Conferenza di Sanaa in un contesto del genere e quale azione produttiva positiva consente di realizzarsi?

 

Due, secondo me. Una che può essere il documento finale: un documento programmatico e politico che possa sostituire il fallimento della Lega araba. Oppure dare forza alla Lega araba… Non so, adesso faranno il vertice a Tunisi… Secondariamente, quel documento fa saltare in aria l’idea che l’Europa aveva nel progetto di Barcellona dell’approccio regionale, perché noi a Barcellona avevamo deciso che tutti andavano trattati nello stesso modo, già allora avendo alle radici un’ipotesi sbagliata, perché tu non tratti con la Libia come tratti col Marocco…

 

O un’ipotesi di non scelta…

 

Infatti non andò da nessuna parte, perché tu non puoi arrivare con le stesse priorità di negoziato con l’Egitto piuttosto che la Giordania, o con il Marocco paragonato alla Siria, perché in Marocco, specie coi passi che ha fatto negli ultimi tempi, il problema è di raffinare le istituzioni democratiche, mentre in Siria siamo al partito unico, certo più laico di altri, ma che funziona a servizi segreti. Questa è la verità. Questo concetto dell’approccio regionale, se ho capito bene, per nostra fortuna è saltato nei nuovi documenti della Commissione.

 

Ma la dichiarazione di Sanaa dà una traccia molto precisa di quello che il mondo arabo in qualche modo comincia a pensare… Sapendo che alcuni l’hanno accettata ob torto collo e altri sono stati invece trainanti, pure Paesi che finora non abbiamo considerato, perché a noi lo Yemen non piaceva e non si è capito perché non ci piaceva…

 

Perché è da sempre stato letto come egemonizzato dall’Unione sovietica…

 

Ma senza capire cosa sia successo dal ’94 in poi! Tenuto conto, peraltro, che gli approcci sono completamente diversi perché, per esempio, i Paesi del Golfo non hanno bisogno della nostra cooperazione, sono più ricchi di noi e proprio il loro sviluppo economico è stabile, hanno un progresso del 6-7% negli ultimi vent’anni che fa sì che i Paesi del Golfo non riescono a stare nella Lega araba, perché non hanno niente a che spartire a livello di priorità economiche con l’Egitto, la Siria, la Giordania. Sanaa è importante perché è il documento dei governi e dà a noi una piattaforma di negoziato, tenuto conto delle specificità di ciascuno, che sia all’altezza dei nostri tempi e che non sia la ripetizione degli accordi di associazione pensati quindici anni fa.

 

Un’Europa che, per crescita demografica, a differenza degli Stati Uniti, è in difficoltà; che ha una presenza araba sempre più massiccia…

 

Abbiamo quindici milioni di musulmani…

 

E non ha saputo fissare il minimo di dialettica possibile, rispettando i singoli diritti umani… Secondo te, alla luce di questa proiezione demografica, con l’America che comunque è destinata a crescere e un’Europa che è invece destinata a decrescere e sempre più occupata dalla presenza di altre popolazioni – non dico occupata intendendo qualcosa di negativo – ma di fatto l’allargamento andrà in quella direzione, dobbiamo aspettarci un ulteriore elemento di frattura, dalle conseguenze nefaste, tra Stati Uniti e Europa e come si potrebbe colmare questo disavanzo?

 

L’Europa ha così paura che non si guarda e non si vede. Per esempio, nell’allargamento gli è ben venuto in mente, salvo agli inglesi e forse agli irlandesi, che i cittadini dell’Est europeo avranno diritto di libera circolazione tra sette anni. Quindi noi li invadiamo subito di patate, pomodori e quant’altro… Tra l’altro ampiamente sovvenzionati…

 

Conosciamo la tragedia dell’agricoltura in Europa…

 

E giustamente Benedetto Della Vedova ha sottolineato questo bell’episodio: in Estonia le famiglie stanno facendo incetta di zucchero perché loro ce l’hanno a prezzo di mercato e quando entrano in Europa questo zucchero gli costa come il leasing a Londra… Sono scene che ti fanno rabbrividire

 

Ma che definiscono un’impotenza di transizione ragionevole…

 

Non solo: si dà l’impressione alla gente che l’ingresso in Europa sia fondamentale, ma poi nella concretezza ci si trova a dover stoccare lo zucchero prima di entrare! Ci sono fior fior di documenti della Commissione europea che dicono che il massimo di ondata che ci si può aspettare varia tra le 70.000 e le 120.000 persone provenienti dall’Est europeo, che su una popolazione di 350-450 milioni non è proprio un’occupazione. E inoltre sarebbero gli immigrati più omogenei, più integrabili, che poi possono essere quelli che vengono e poi tornano.

 

Abbiamo detto di no: siamo terrorizzati da 70.000 polacchi, sloveni, estoni… Risultato: abbiamo quindici milioni di musulmani e nei Paesi a crescita economica zero della Lega araba, attualmente 220 milioni di persone, vi è un’esplosione demografica al 3% che li porta nel giro di una generazione e mezza a 440 milioni. Tant’è che le prime proiezioni danno quindici milioni di musulmani adesso, 30-35 milioni tra vent’anni… Ci sono già 220 milioni di persone al di là del “lago”, in Paesi con crescita economica zero, per ragioni tutte politiche. Se tu pensi che l’Arabia Saudita è un Paese praticamente in stagnazione da quindici anni… Cioè, c’è un tizio seduto sul petrolio, che esporta capitali, l’Arabia Saudita ha un’esportazione di capitali pari al nostro debito pubblico…

 

È anche il luogo fisico dove si consuma la vicenda di Bin Laden…

 

Non a caso. L’Arabia Saudita è in stagnazione da quindici anni. Fa abbastanza impressione, no?

 

Certo. Ma l’Europa ha anche paura di quei valori che in qualche misura doveva esportare… Qui il concetto di multi-culturalismo, assieme al concetto della guerra di civiltà che è stato poi proiettato, hanno finito ulteriormente per favorire tutte le pusillanimità di cui siamo oggi investiti!

 

Anche perché poi noi non vogliamo vedere. Perché è chiaro che una transizione democratica è a medio termine più utile, certamente a loro e quindi a noi, ma non è che debba essere lineare. Una transizione democratica può avere una fase di set-back, puoi anche non riuscire a guidarla ovunque. La stabilità rimane il nostro chiodo fisso nei rapporti internazionali. Per stabilità abbiamo sostenuto tutti i regimi di questo mondo.

 

Gli Stati Uniti adesso vogliono il regime change, ma esiste un’ipotesi intermedia, più seria e rigorosa, che è quella del tentativo della trasformazione in senso democratico, che forse non ottieni in Siria, ma che puoi ottenere in Giordania, in Marocco, e questo fa macchia d’olio… Per esempio ieri viene la ministra dei diritti umani e mi dice “lei sa che sto facendo?”; e io: “no, che cosa sta facendo?” Lei risponde: “ho preso la legge che ha fatto il re del Marocco, il quale viene da Maometto, che interpretando la Sharia ha detto ‘la Sharia degli anni 2004 si interpreta così, ve lo dico io che vengo da Maometto e faccio il leader di tutti voi. Le donne hanno tutti i diritti come gli uomini: la legge personale marocchina è una rivoluzione. Ve lo dico io perché io ho l’interpretazione autentica: se non vi fidate di me, chi ve lo deve dire?’”.

 

Ora la ministra dice che ha preso questa cosa e sta duplicando la legge marocchina per farla conoscere e mi è venuto da sorridere perché in un dibattito al Parlamento europeo, in una serie di incontri con funzionari europei, proprio subito dopo l’approvazione di questa legge, passata in Parlamento, quindi con tutti i crismi, etc. dissi: “Scusate ma voi che sempre dite ‘che facciamo, che non facciamo?’ comprate un bello spazio su Al-Jazeera e su Al-Arabia, prendete una bella signorina marocchina che va ad Al-Jazeera e dice: ‘sentite, il mio re, che viene da Maometto nonché il mio Parlamento, hanno approvato questa legge che ha dato alle donne gli stessi diritti degli uomini e quindi anche voi sudanesi, egiziane, etc…’”

 

È un bell’inserimento di contraddizione nella realtà monolitica…

 

Fantastico. E la povera ministra mi dice: “Sono io del poverissimo Yemen che mi sto facendo la duplicazione della legge e del preambolo esplicativo alla legge e che la sto distribuendo…”

 

Un’ultima annotazione: Fukujama dice che l’esportazione della democrazia è possibile, sia pure in tempi molto lunghi. Secondo te questo tipo di concetto ha una sua validità teorica e anche pratica?

 

A me l’espressione “esportare democrazia” non piace e ho trovato molto convincente il librettino di Amartya Sen che dice: “Voi siete così razzisti che vi siete pure appropriati dell’idea che la democrazia l’avete inventata voi; no, la democrazia stava pure da noi.” E fa l’esempio dell’India prima della colonizzazione inglese e quindi dice: “Non sarà Westminster, ma un modo diffuso di gestione era tipica anche della nostra società e quindi vedete di smetterla di appropriarvi del fatto che la democrazia è un ritrovato occidentale, che siete bravi solo voi, ce l’avete solo voi; già non è così storicamente parlando.” A me, personalmente, basterebbe sostenere la democrazia…

 

O i singulti di democrazia dove nascono…

 

E ci sono! Ma non li vediamo, non li vogliamo vedere. Frattini, Fisher vengono al Cairo e fanno questo giro: Mussa, Maher, Mubarak. E in due anni io non sono riuscita a farmi dare da nessuno di loro un’ora, due ore di tempo in modo molto riservato a casa mia per fargli conoscere qualche altro signore, persino dell’establishment, che dice: “Guardi non è così, ma così…”

 

Ma questa ottusità è…

 

No, no. Non è ottusità, è una linea politica precisa: è la stabilità a tutti i costi. Per cui questi si fanno davvero imbambolare, ancora stanno lì con qualcuno che gli dice: o noi o gli estremisti.

 

È anche una linea economica, però…

 

Friedman ha ragione quando dice: “Noi li abbiamo presi per una pompa di benzina e quindi, purché il petrolio rimanesse tra i venticinque e i trenta dollari, a noi per il resto ci andava bene tutto…”

 

Un’ultima domanda sull’Onu. È inutile che stiamo a discutere la sua rappresentatività e tutti i problemi connessi, ma un’azione ipercritica dell’Onu non rischia di dare, almeno nel giudizio di taluni che pure questa visione critica ce l’hanno, una sorta di indebolimento dell’unico luogo dove poi sostanzialmente qualche praticabilità si potrebbe tentare… Che tipo di interpretazione dai?

 

Hai ragione. Per esempio penso ci sia stata, come direbbero i miei amici inglesi, too much bashing, (“troppa merda”) sull’Onu perché non tutte, ma alcune delle agenzie sono totalmente obsolete, e alcuni Paesi membri che stanno nei vari consigli di amministrazione sono i responsabili delle situazioni che l’Onu dovrebbe combattere. Ora è entrato il Sudan: in pieno genocidio a Darfur, il gruppo regionale africano candida il Sudan. Gli unici che si oppongono all’ingresso del Sudan come membri della Commissione dei diritti umani sono gli Americani che dicono di no, si alzano ed escono. Ovviamente l’Europa che ha fatto? Ha votato, pari pari. Siamo riusciti a non fare entrare il Vietnam, per via dei Montagnard: nel gruppo asiatico è entrato il Pakistan che non è da meno.

 

Però per esempio l’Undp indubbiamente ha saputo autoriformarsi, con una leadership molto forte; d’altronde si tratta di coloro che hanno preso il coraggio a tre mani e hanno fatto uscire questo rapporto sullo sviluppo umano nel mondo arabo, che poi è la base di tutti i discorsi possibili e immaginabili, e quindi hanno avuto il coraggio di convincere degli intellettuali, degli economisti arabi a scrivere loro stessi la loro crisi e la loro ricetta per andare avanti.

 

Alcune agenzie sono obsolete, però alcune sono anche efficaci. L’inefficacia di quelle che non funzionano è dovuta al fatto che gli stessi Paesi membri sono responsabili di azioni riprovevoli. Quello che viene fuori è che l’Onu può fare tante belle cose, ma di pace e di sicurezza, così come s’è venuto configurando, non è in grado di occuparsi. Anche per non applicazione di tutta una serie di articoli della sua Carta, per cui può arrivare un dittatore ancora tutto sporco di sangue che però ha conquistato il tale Paese ed entra per criteri territoriali. E nessuno gli dice: “Scusi, ma veramente noi qui giochiamo a tennis, siccome lei gioca a golf vada da un’altra parte…” Quindi non ci sono criteri di ammissione se non puramente geografici: l’Onu è quella che stava per riconoscere il governo talebano, per intenderci. La Carta prevedeva lo Stato Maggiore delle Nazioni Unite, cioè prevedeva tutta una serie di strumenti che a nessun Paese membro è venuto in mente di realizzare… E quindi l’Onu oggi è indubbiamente inadeguato… Il Consiglio di Sicurezza che è l’unico elemento vincolante con poteri vincolanti…

 

Ha una forza rappresentativa assolutamente inadeguata…

 

E lì non è tanto Kofi Annan, che al massimo potrebbe anche dimettersi, il problema è che i cinque membri permanenti non hanno voglia di allargare il club, per cui è da dieci anni che si parla di riforma del Consiglio di Sicurezza e non si va da nessuna parte. E se poteva avere un senso negli anni Cinquanta, oggi il Consiglio di Sicurezza non rappresenta più nessuno.

 

La domanda è: l’organizzazione mondiale delle democrazie e della democrazia parte dall’Onu oppure deve nascere fuori dall’Onu?

 

Tutte e due. Per esempio, se la comunità delle democrazie fa blocco su alcuni temi fondamentali, il Sudan non entra e quindi tu eviti già di avere la Commissione dei diritti umani ipotecata dalle dittature di questo mondo. Oppure pensa anche a una comunità delle democrazie che abbia la maggioranza, senza litigare, per un progetto del consiglio di amministrazione della Banca mondiale

 

Quindi la tua visione progettuale qual è? Che bisogna formare delle realtà esterne, chiamiamole di movimento, che poi assumono un’azione di pressione sul soggetto esistente…

 

Sì. Perché altrimenti non si riforma per niente.

 

(Tratto da Quaderni Radicali 85 - maggio/giugno 2004)



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