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24/04/24

Quanto pesa la pressione mediatica sui processi? Il caso Bossetti condannato anche in appello


Categoria: STILE LIBERO
Pubblicato Sabato, 22 Luglio 2017 17:43

di Gianni Carbotti e Camillo Maffia

 

La condanna a Massimo Bossetti segna un passaggio indelebile nel già controverso rapporto tra media e giustizia e di conseguenza in quello tra narrazione e fatti, che si traduce purtroppo in una distanza sempre maggiore dalla realtà. Il caso di Yara Gambirasio ha raggiunto delle punte paradossali e con questo non si vuole in alcun modo delegittimare il lavoro di chi indaga né quello di chi giudica – paradossale è già di per sé un delitto così efferato, un accanimento tanto violento in una cittadina tranquilla su una ragazzina innocente che non poteva avere nemici – quanto notare l'incredibile baratro che separa la complessità della vicenda giudiziaria dalla versione stereotipata che è stata ammannita all'opinione pubblica dai media generalisti.

 

Questa condanna di appello, che ribadisce quella emanata in primo grado, è stata accolta da Massimo Bossetti con le parole: “È il più grande errore giudiziario del secolo”. Per arrivare a dire una frase così estrema, evidentemente qualche elemento dovrà pur averlo; ma anche a volergli togliere ogni credibilità, ci sono i legali che lamentano la violazione del diritto alla difesa.

 

Non sta certo a noi stabilire se sia così. Spetta piuttosto alla Cassazione se sia effettivamente così; tuttavia, degli elementi dovranno pur averli per lanciare una simile accusa nei confronti del Tribunale – accusa che somiglia piuttosto a un grido d'aiuto e di costernazione, tanto che a Radio Cusano Campus l'avvocato di Bossetti Claudio Salvagni ha dichiarato: “Ogni persona intellettualmente onesta non può non pensare che l'imputato debba difendersi. Tutto ruota intorno alla prova genetica e Bossetti non ha potuto difendersi su questo, anche alla luce di tutto il materiale che abbiamo portato”.

 

Tutto questo, com'è ovvio, si vedrà. Dalla sentenza dell’Appello Bossetti è il colpevole dell'omicidio di Yara Gambirasio, ma bisogna attendere la sentenza definitiva per esserne completamente certi; d'altro canto, è pur vero che quando si parla di violazione del diritto alla difesa, l'affermazione nasce dal fatto che nella controversa e insolita vicenda del DNA (è difficile a memoria d'uomo trovare un altro caso in cui per risolvere un delitto, anziché insistere sulle frequentazioni della vittima, siano stati prelevati oltre 18 mila campioni di DNA) sia stata negata la perizia genetica richiesta dagli avvocati dell'imputato.

 

Fatto ancora più strano se si considera che la corrispondenza è solamente parziale, ovvero il DNA nucleare trovato sulla vittima corrisponde a quello dell'accusato, ma quello mitocondriale no; e dunque sarebbe stato, a rigor di logica, nell'interesse non soltanto di Bossetti, ma della verità stessa approfondire con una perizia genetica.

 

Sarebbe troppo lungo riesaminare tuttavia la lunga lista di potenziali incongruenze nella tesi che vede Bossetti colpevole oltre ogni ragionevole dubbio in virtù della prova del DNA, a cominciare dal fatto che quello rinvenuto sugli indumenti di Yara non appartiene unicamente a Bossetti, ma vi è anche quello della sua insegnante di danza: tuttavia, il muratore è finito imputato e l’insegnante testimone, fatto questo su cui si sono interrogati parecchi commentatori senza riuscire a individuare una risposta soddisfacente.

 

Ma non vogliamo a nostra volta cadere nel tranello che porta le testate giornalistiche a fare e rifare i processi fuori dalle aule di Tribunale, dato che il problema è proprio quello: Bossetti è stato già dichiarato colpevole dai media, il verdetto è stato letto da tutti i principali telegiornali e programmi di approfondimento all'epoca delle indagini, le notizie sono state fornite in modo selettivo (poco o nessuno spazio alle incongruenze, esasperazione delle prove che hanno spinto gli inquirenti a sospettarlo) e, quel che è più grave, di rado è possibile rintracciare un simile caso di vera e propria gogna mediatica.

 

Tutti noi conosciamo l'abitazione di Bossetti e i volti dei suoi familiari; sappiamo ogni dettaglio e pettegolezzo della sua vita, e la saga del figlio illegittimo, che avrebbe condotto ai conati anche gli autori di Beautiful, è stata trasmessa e ritrasmessa come un cult generazionale per un tempo insopportabilmente lungo. Questo è il punto che c'interessa mettere a fuoco: neppure se Bossetti fosse colpevole avrebbe meritato un simile calvario mediatico.

 

Né avrebbe potuto mai meritarlo la sua famiglia, affatto innocente del delitto e di ogni accusa ad esso connessa. E' il minimo comune denominatore che collega i casi di omicidi efferati in cui non è semplice individuare, con assoluta certezza, un colpevole. Basti pensare al video che avrebbe immortalato il furgone di Bossetti che girava attorno alla palestra frequentata dalla vittima la sera della sua scomparsa e che risultò poi l'effetto di un montaggio a dir poco creativo: furono le stesse forze dell'ordine che avevano realizzato il filmato ad ammettere durante il processo che era stato “fatto per esigenze di comunicazione. È stato dato alla stampa”.

 

Lo stesso accade, ad esempio, con la vicenda di Alberto Stasi, cui è stato rigettato l'ultimo ricorso presso la Corte di Cassazione che ha confermato la condanna a sedici anni di carcere. Il rapporto tra media e giustizia, si è sviluppato in modo ancora più morboso nel caso di Garlasco, il quale risulta per alcuni aspetti ancora più opaco nella sua ricostruzione. Anche qui, sommare ed elencare le incongruenze sarebbe troppo lungo e si può rimandare a un approfondimento realizzato recentemente da “Le Iene”, in cui è stato realizzato un lavoro piuttosto onnicomprensivo sull'argomento, nel quale emergono un po' tutti i dubbi sulla colpevolezza dello studente di economia.

 

Un lavoro controcorrente, perché come è accaduto con Bossetti, per l'uomo della strada Stasi è un mostro gelido, freddo ed efferato, e lo è dai giorni delle indagini. Val la pena però ricordare che l'imputato è stato assolto in primo e secondo grado prima per insufficienza di prove e poi per non aver commesso il fatto; secondo alcune ricostruzioni vi è una nota famiglia di Garlasco che era in possesso delle chiavi di casa Poggi che fu indagata soltanto parzialmente; un operaio si presentò spontaneamente dai carabinieri, sostenendo di aver visto nell'orario in cui dev'essersi consumato il delitto una ragazza su una bicicletta nera (come quella che guidava l'assassino di Chiara) che portava con sé un piedistallo da camino (l'oggetto con cui la vittima è stata colpita non è mai stato rinvenuto: Stasi è stato infatti condannato senza movente e senza che sia mai stata rinvenuta l'arma dell'omicidio, mentre il DNA trovato sotto le unghie di Chiara Poggi certamente non appartiene a lui), ma la  testimonianza  dell'uomo  è  stata  poi  ritrattata  dallo  stesso,  il  quale  afferma  di  essersi inventato tutto con un'insolita motivazione (“Sono uno stupido”), benché sarebbe stato certo interessante approfondire questa sua versione dei fatti, se si considera che la ragazza avvistata sarebbe stata componente della famiglia che ha le chiavi di casa Poggi; qualcuno rispose alle insistenti telefonate di Alberto Stasi a casa di Chiara nell'orario del delitto, una risposta inizialmente attribuita al sistema automatico di sicurezza che risultò poi impossibile sia scattato per ragioni insite nella programmazione stessa dell'allarme, e dunque doveva essere l'assassino che rispondeva a Stasi – ma se è così, l'assassino non può essere Stasi, perché Stasi non può aver risposto a Stasi; e si potrebbe  proseguire  con  la  fragilità  delle  tante  tesi  che  ruotano  attorno  alla  bicicletta  che  ha condotto il colpevole a casa di Chiara – ma non sta a noi, ripetiamo, rifare il processo.

 

Quel che è certo è che Stasi è un altro mostro mediatico, presentato al grande pubblico come un efferato assassino inchiodato da prove certissime, laddove la sua stessa vicenda processuale dimostra che tutta questa certezza non vi è mai stata nell'addossargli questo omicidio, al punto che non solo è stato assolto nei primi due gradi di giudizio ma nell'udienza in Cassazione del 2015 che lo ha condannato in via definitiva il PG della Cassazione chiese l'annullamento con rinvio specificando che sarebbe stato doveroso chiedere l'annullamento senza rinvio a causa della “debolezza dell'impianto accusatorio”, ma chiedeva l'annullamento con rinvio “per scrupolo e rispetto nei confronti del grido di dolore di tutte le parti”.

 

Questi presunti “assassini” divengono, loro malgrado, dei VIP, dei personaggi le cui vicissitudini gli italiani sono abituati a seguire con passione e avversione negli orari in cui la famiglia è riunita a tavola o s'è appena alzata al mattino accendendo la radio per il notiziario subito dopo il caffè; e quindi anche quando vengono assolti restano colpevoli, perché da persone sono ormai divenuti personalità e infine personaggi, che il fragile senso critico dell'audience accoglie mentre entrano in scena su una sinistra musica di sottofondo in segmenti ritrasmessi per anni e anni; e una volta che il Tribunale dovesse rivedere le sue posizioni, che emergessero nuovi elementi o che la stampa stessa, com'è accaduto proprio con Bossetti e Stasi, cominciasse parzialmente e tardivamente a porsi delle domande sulla loro colpevolezza, be', è troppo tardi: il finale è stato già trasmesso decine e decine di volte, non si può più cambiare – non per lo spettatore.

 

Non convincerete mai nessuno del fatto che Roger Rabbit sia stato incastrato da qualcuno che non sia il giudice interpretato da Cristopher Lloyd, né che l'assassino di “Psycho” sia altri che Norman Bates. Così è per i mostri mediatici; lo ha raccontato e denunciato più volte Raffaele Sollecito, assolto, il quale ha trascorso quattro anni in carcere da innocente e non solo è tuttora additato come un assassino, ma mentre i media sembrano talvolta ancora tutto sommato suggerire che la sua posizione non si sia del tutto chiarita, la Cassazione ha confermato la sentenza che gli nega il risarcimento per l'ingiusta detenzione subita, nonostante la Corte stessa, che a suo tempo ha pronunciato l'assoluzione sua e di Amanda Knox, non sia stata affatto tenera sul modo in cui furono condotte le indagini e parlò apertamente di “clamorose défaillance”. Eppure, non ha diritto ad alcun risarcimento.

 

Ma la domanda rimane: quanto pesa la pressione mediatica su queste sentenze? Pensiamo al delitto di Avetrana, che è stato oramai adottato come simbolo dell'ingordigia divorante dello sciacallaggio mediatico: è difficile dimenticare come la giudice non riuscì a rispettare i tempi entro i quali avrebbe dovuto produrre le motivazioni della sentenza con cui sono state condannate Sabrina e Cosima Misseri. Viene allora il dubbio che su questi casi, così diversi nel reale ma tanto assimilati nella narrazione, pesi proprio quest'ultima con i suoi verdetti mediatici sputati sopra un piatto di spaghetti a cena. E che pesi, purtroppo, anche sulle sentenze.

 

 



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