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29/03/24

La società di massa nell’arte visuale


Categoria: ARTE E DINTORNI
Creato Domenica, 17 Maggio 2020 23:53
Ultima modifica il Lunedì, 18 Maggio 2020 00:05
Pubblicato Lunedì, 18 Maggio 2020 00:05
  • Giovanni Lauricella

L’interesse ai cambiamenti che ci saranno, dovuti alla pandemia, rimettono in discussione molte di quelle che fino a ieri erano le certezze che ci facevano vivere sicuri e ci facevano interpretare i fenomeni del mondo, facendoci fare le scelte che consideravamo giuste.

 

Tra tutte le concezioni che considero più di tutte a rischio vi è la società di massa, concetto seppellito ormai da lungo tempo da nuove teorie ma che sinteticamente racchiude tutto il pensiero dei grandi filosofi e sociologi, che spesso nominiamo ogni qual volta cerchiamo di spiegare quello che succede o quello che è successo, come il "Taylorismo", la divisione del lavoro teorizzata da Adam Smith nel Settecento, il suffragio universale (Italia, 1912) e i partiti di massa.

 

Con le debite differenze, era il tema che suscitava attenzione quando iniziò la rivoluzione industriale, che diede inizio a tutta una serie di disquisizioni teoriche su quello che potevano essere gli sviluppi e il ruolo che dovevano avere le innumerevoli persone coinvolte: la massa.

 

Iniziò così l’uso di questo termine in connessione ad altre parole come produzione, consumi, beni, e poi il concetto gramsciano di egemonia culturale, le teorie di Theodor W. Adorno e degli altri filosofi della Scuola di Francoforte,i persuasori occulti di Vance Packard: insomma tutto quello che in questo periodo condiziona il nostro quotidiano, che probabilmente cambierà in nuove dinamiche se gli effetti della pandemia saranno disastrosi. 

 

Con la rivoluzione industriale l’attenzione degli artisti è dedicata a quello che succede all’esterno, in pubblico. En plein air era detta quella pittura che ha origini nei romantici inglesi, rivolta a ritrarre le feste sui prati o alle corse dei cavalli; e che dire degli esordi della pittura moderna, che riflette proprio la vita sociale che nei primi anni del ‘900 faceva di Parigi il cuore pulsante del costume europeo, della nuova vita tanto ammirata e  desiderata, che si apprestarono tutti a fare per affermare per l’appunto la propria modernità ed emancipazione, che si concluse con la Belle époque (1900-1914).

 


 

Dagli Impressionisti in poi questo genere, oltre il fatto che era una nuova pittura, era anche la messa in scena della nuova società borghese che si affacciava al mondo. In quei quadri tutti vedevano il costume che si evolveva senza le preclusioni di ambienti chiusi; nei quadri appare il traffico delle strade, le piazze affollate, i viali pieni di tavolini dei caffè alla moda attorniati da tante persone festanti, il passeggio di tante donne con l’ombrellino, le famiglie che fanno i picnic nei parchi, le spiagge affollate di persone a spasso vestite di tutto punto ecc. ecc. ma anche luoghi insoliti per la pittura come il Bal au Moulin de la Galette di Pierre Auguste Renoir, 1876,Le déjeuner des canotiers di Pierre-Auguste Renoir, 1880-1882; Boulevard Montmartre di notte di Camille Pissarro, 1897,  e senza rifare la storia dell’arte ricordo in Italia i Macchiaioli

 

La gente per le strade, i luoghi affollati, l’affannoso movimento di persone, il traffico automobilistico, si fanno sempre più presenti in tutto l’Occidente ed “esplodono” col Futurismo … Da un mondo così concepito per la presenza umana preponderante passeremo con la pandemia a uno probabilmente opposto preponderante negli scenari futuri. Un tormento che mi ha spinto a immaginare ambiti diversi, a rivedere le opere artistiche secondo nuove suggestioni.

 


 

Non so il vero perché ma l’ossessione di questa prospettiva mi ha fatto rivenire in mente una famosa installazione fatta da Gianfranco Notargiacomo, di gran successo sin dalla sua prima presentazione nel 1971 alla Tartaruga di Plinio De Martiis, dove erano esposti degli Omini di plastilina con il nome Le nostre divergenze, poi riproposta nel 2009 alla GNAM col titolo Le nostre divergenze 1971-2009 e parzialmente nella recente mostra alla GAM di Spoleto con il titolo Convergenze, perché insieme a opere di suoi amici artisti, allievi dell’Accademia, e ad altre opere dei depositi della Galleria d'Arte Moderna 'G. Carandente’ al Palazzo Callicola di Spoleto, i cui autori sono: Burri, Sadun, Bendini, Pace, Vacchi, Asdrubali, Rossano, Gandini, Cascella, Ceroli, Boille, Cotani, Mattiacci, Luzzi, Pozzati. 

 

Parlo di un’installazione di molti uomini di medie dimensioni, quasi piccoli, comunemente vestiti, riprodotti in considerevole numero, come a voler affollare una grande sala di esposizione. Quando fu esposta la prima volta in pubblico, l’installazione fu definita nell’Herald Tribune da Edith Schloss come “The most surprising show. Opera forte che non ha bisogno del mio supporto per essere descritta, perciò rimando al sito personale notargiacomo.com  per l’esatta spiegazione e la necessaria conoscenza biografica dell’autore.

 

 

Un’installazione che mi torna facilmente in mente forse per la sua apparente semplicità se la si vuol considerare come una serie di statuette dalle sembianze umane. Eppure, sarà il duttile materiale con il quale vengono proposti gli omini o perché già contestualizzati e rielaborati in abiti differenti ogni qual volta sono stati esposti, essi si prestano, a mio avviso, a ulteriori rielaborazioni

 

Un’interpretazione diversa, un azzardo rispetto agli ottimi contenuti conferiti dall’autore, Gianfranco  Notargiacomo, ciononostante, ineccepibile e di gran valore qual’è, la prendo a riferimento per una differente  ipotesi, per un discorso che, ben inteso, non  ha nessun valore di critica rispetto a come era stata concepita. In questa rielaborazione dell’opera dò una suggestione teorica, un messaggio messianico da associare a quello che sta accadendo con la pandemia del Covid 19. La moltitudine di statue, i tanti omini li rivedo e rielaboro alla luce di quello che sta succedendo.

 


 

Ne dò, com’è intuibile,  la riproposizione visuale della società di massa, la moltitudine di gente che popola il pianeta, una rappresentazione simbolica astratta di quello che sono le preoccupazioni correnti. Probabilmente siamo a un punto di arrivo di tutti quelli che erano i nostri presupposti sociali, nati al tempo della rivoluzione industriale ed esauriti adesso con le ultimi dibattiti sui non- luoghi, la società liquida e su quello che dovrebbe essere l’utopia formulata dal sociologo e filosofo tedesco Jürgen Habermas e anche altri che affollano le nostre discussioni.

 

Adesso, penso che ci troviamo all’alba di un terremoto, in cui tutto verrà stravolto e bisognerà riesaminare le nostre certezze, forse molto di più di quando ci fu la reinterpretazione della metafisica rivisitata da Heidegger e poi da Gadamer, che cambiò l’approccio alla filosofia. Con la maggiore dipendenza dal digitale, creata dalla pandemia, ci ritroveremo catapultati in un nuovo mondo con prerogative differenti dove sempre più la “macchina” funge da prudenza (phrónesis) e ne coordina il corso.

 

Quindi, si fa vivo sempre più il ricordo dell’uomo, di quell’umanoide (sempre più distante da quello che potremmo diventare) con tutti i suoi difetti e contraddizioni, da essere considerato come elemento centrale delle riflessioni. Di pari passo va la rielaborazione fantasiosa e arbitraria di quegli omini di plastilina che rivedo in una nuova simbolica realizzazione, non me ne voglia l’autore. 

 

Espressione di fragilità umana, modellati dall’umile plastilina, sono soggetti importanti quanto deboli, simulacri, di quello che non dobbiamo perdere che così di seguito, a cascata, vado a elencare: la solidarietà, l’etica, l’integrazione, la cooperazione civica, la politica cosmopolita, le lotte alle ingiustizie e la giustizia globale …

 


 

La collettività, un numero consistente di persone, la gente, tutti quelli che formano la nostra vita che vedevamo in passato, si trasfigurano in concetti sociali espressi da quegli omini di plastilina, fragili, che il calore scioglie, piccoli, vulnerabili, non facili da difendere, il nostro futuro a rischio

 

«La questione sociale s'impone; molti si son dedicati ad essa e studiano alacremente per risolverla. Anche l’arte non dev'essere estranea a questo movimento verso una meta che è ancora un’incognita ma che pure si intuisce dover essere migliore a dispetto delle condizioni presenti». Riflessioni di Pellizza da Volpedo (1868-1907) fatte quando dipingeva Ambasciatori della fame (1891-1895), quadro che dette origine a Fiumana (1895-1898) che poi diventò il famosissimo Il quarto stato (1898-901).

 


 

 



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