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25/04/24

La morte di Gianni De Michelis. Il ricordo di un suo intervento su Quaderni Radicali


Categoria: POLITICA
Pubblicato Domenica, 12 Maggio 2019 00:45

La morte di Gianni De Michelis avvenuta all’età di 78 anni, riporta alla mente una stagione politica piena di contraddizioni ma vitale e anticonsociativa. De Michelis fu sicuramente uno dei protagonisti di quel socialismo, da cui avrebbe avuto origine la leadership di Bettino Craxi, che era sicuramente minoritario rispetto allo scenario intellettuale della sinistra egemonizzato dai comunisti…. Purtroppo all’interno della vicenda socialista si erano consolidati parametri di valutazione per cui si era ritenuto che la società fosse da “controllare” attraverso altri strumenti e si era trascurata l’importanza del ruolo che la cultura, i diritti civili prioritariamente potevano avere (come i Radicali Marco Pannella si erano sforzati di indicare)…

 

Gli anni ottanta hanno prodotto tante icone, molte delle quali criminalizzate, ma anche la rivendicazione di autonomia che volevano rappresentare. E la scomparsa di De Michelis fornisce l’opportunità di una rilettura politica di quegli anni. La stampa italiana – in crisi di idee e di vendite – ha voluto ricordare solo le questioni di potere e quelle da gossip (il De Michelis circondato da donne che ballava scatenato e sudato…!) per meglio reiterare la sua volontà ad accantonare, annullare la memoria, quei contenuti politico-culturali che, anche se pieni di ambiguità, erano l’unico antidoto alla produzione di inquietanti fenomeni che ci hanno condotto alla tragica situazione che viviamo.

 

Agenzia Radicale Quaderni Radicali provano a ricordare la complessa e comunque fruttuosa prospettiva di una speranza laica, socialista, liberale e radicale, che restava e resta, lo ripetiamo, l’unico anticorpo alla scheletrico e pericoloso quadro politico-istituzionale attuale, attraverso la riproposizione di un suo contributo alla rivista.

 

Quella che segue è infatti l’intervista che Gianni De Michelis rilasciò a Quaderni Radicali nel n. 82 di settembre-ottobre 2003. In essa, l’esponente socialista svolgeva un’ampia disamina dei fatti che avevano condotto alla cosiddetta seconda Repubblica. A distanza di oltre quindici anni, contiene fra l’altro riflessioni che si rivelano suggestive anche per quel che riguarda la situazione dell’Europa. La riproponiamo dunque nel giorno della sua scomparsa.

 

 

 

 

 

Far riemergere i laici-socialisti per un governo del Paese (*)

 

Gianni De Michelis conversazione con Luigi O. Rintallo

  

***

 

Nel suo libro-intervista La lunga ombra di Yalta (Marsilio) lei evidenzia come il nostro Paese sia stato svincolato dal consesso internazionale di “appartenenza”, assumendo i caratteri di una zona grigia contraddistinta dall’anomala presenza al suo interno del maggior partito comunista d’occidente in grado di dar corpo a una sorta di Italia dell’Est…

 

Nella conversazione con Kostner non pretendevo certo di esprimere tesi originali, ma a mio parere quello è il punto di vista con cui vanno guardate le vicende italiane dal 1945 in poi. I fatti dimostrano che le caratteristiche con le quali si è sviluppata la vita democratica in Italia sono state caratteristiche peculiari  – usiamo questo termine – e in qualche modo anomale e differenti.

 

La causa di questa peculiarità va ricercata appunto nell’ombra di Yalta che si è allungata sul nostro Paese: è una metafora, ma contiene in sé la verità delle cose. Alla fine della guerra l’ordine mondiale deciso dai vincitori, che servì agli stessi per dividersi il mondo e in particolare quell’Europa epicentro dello sconvolgimento che aveva portato al conflitto, ha riguardato ovviamente anche l’Italia. E l’ha toccata in forme improprie ed anomale rispetto alle altre nazioni: la Germania fu divisa fisicamente in due, al pari dell’Austria la cui “separazione” avvenne in un contesto diverso come quello della neutralità. Altri Paesi – come la Grecia – dopo la guerra sono stati oggetto di turbolenze anche gravi, laddove una divisione non perfetta portò prima alla guerra civile coi comunisti e più avanti a un colpo di Stato fascista.

 

L’Italia è stata divisa in modo atipico, con una specie di convenzione per la convivenza al di fuori delle regole di due campi nettamente distinti. Separati non geograficamente, ma dal punto di vista del reciproco condizionamento di aree della società italiana. Questo spiega perché la nostra è stata una democrazia bloccata: avevamo sì un sistema  democratico e come in ogni sistema democratico tutti i partiti erano uguali e competevano per il consenso sulla cui base esprimevano delle influenze. Ma c’erano poi due partiti che per definizione erano più uguali degli altri: la Dc e il Pci, ciascuno dei quali con un compito e un ruolo.

 

Uno condannato a governare e l’altro – il Pci, saldamente inserito nel sistema sovietico – a stare all’opposizione, ma all’interno di una logica di co-governo delle questioni sociali in base alla quale ai comunisti era data una sorta di prelazione e di veto sulle decisioni. A questo si aggiungeva un co-governo della situazione territoriale, che riguardava le cosiddette regioni “rosse”. Se, infatti, è anomalo che la Dc abbia governato per cinquant’anni il Paese, ugualmente anomalo è che per altrettanti cinquant’anni il Pci abbia occupato il potere locale di quattro regioni italiane.

 

Naturalmente quest’anomalia ha introdotto delle alterazioni nella vita associata, che sono la spiegazione di fenomeni esplosi poi con Mani Pulite. Infatti, una delle principali conseguenze di questa divisione de facto, di questa co-abitazione al di là delle regole formali è stata per l’appunto il finanziamento della politica che, come dimostrano i documenti, è avvenuto sia per il Pci che per gli altri partiti fuori dalle leggi e sotto il tavolo per cinquant’anni.

 

Tutt’oggi il finanziamento della politica resta avvolto nelle nebbie, dal momento che certamente le forme di sovvenzione pubblica non sono sufficienti a coprire tutte le spese delle forze politiche…

 

È un’anomalia che prosegue dieci anni oltre la fine di Yalta. Il vero problema sta proprio nel come si esce, come si prende atto che il mondo è cambiato e si volta pagina? Il che concerne pure il nodo del rapporto fra soldi e politica, perché uno dei paradossi sul quale nessuno vuole porre l’attenzione è il fattoche dopo tutto il putiferio successo attorno alla questione del finanziamento illegale della politica, si è parlato del cambiamento di qualsivoglia tipo di regole in Italia ad eccezione proprio dei modi in cui la politica si finanzia. Tant’è che, dieci anni dopo Mani Pulite, tutti si chiedono come diavolo funzioni il finanziamento della politica.

 

Credo si possa tranquillamente dire che esso funziona fuori dalle regole e dalle leggi ancor più di prima, anche perché nel frattempo il prolungamento di questa peculiarità – senza che valgano più le ragioni che la giustificavano – ha reso tutto ancor più irregolare e confuso.

 

Con un peggioramento, a nostro avviso. Prima le forme di finanziamento irregolare coinvolgevano l’insieme delle grandi imprese, sulla base di un tacito patto sottoscritto da tutti, e proprio questo forse allontanava la possibilità di una “corruzione politica”. Nel senso che, in tal modo, veniva meno l’obbligo dei percettori verso finanziatori particolari, visto che tutti i più importanti soggetti economici ne facevano parte…

 

In passato vi era sì un’anomalia, ma al tempo stesso anche una regolarità. Nel libro ho cercato di spiegare che queste anomalie non erano figlie del fatto che l’Italia avesse una classe politica più deviante e più corrotta. Sotto questo aspetto, il nostro Paese era assolutamente nella norma: vi erano sì minoranze corrotte, ma così come ve ne erano in Francia, in Germania e dappertutto. I soldi che pervenivano alle forze politiche in modo irregolare avevano una causa precisa (l’ordine di Yalta, appunto) e rispondevano a una logica.

 

Adesso, questo prolungamento di dieci anni di quella stessa situazione, senza più la causa, porta come diceva lei a un peggioramento delle cose. Da questo punto di vista, Mani Pulite ha aumentato il disordine anziché ridurlo: quando aumenta il disordine è evidente che tutto degrada. E questo riguarda ogni forma della vita associata.

 

Il suo libro si divide in tre parti. Alla prima, che – come abbiamo visto – svolge l’analisi geo-politica, segue una seconda parte dove si descrive la parabola del Psi guidato da Craxi e quindi l’attività di governo dopo la fine della solidarietà nazionale. La terza si occupa invece delle inchieste che sconvolsero il sistema politico italiano. Analizzando quanto avvenuto  lei parla di una manipolazione politica intervenuta nelle vicende giudiziarie…

 

In realtà, la prima parte si collega strettamente alla terza. Se non si ha nozione dello scenario internazionale nel quale si collocava l’Italia, non si comprende a pieno quello che è avvenuto fra il 1992 e il 1993. Così come la ricostruzione della vicenda socialista serve a capire le ragioni per cui il Psi – in quanto postosi di traverso alle politiche consociative – si è trovato a fare da principale bersaglio del circuito mediatico-giudiziario attivato dalle inchieste delle procure.

 

Esiste un nesso evidente, per esempio, fra la possibilità data al Pci di usufruire dell’aiuto finanziario da parte dell’URSS e il ricorso a forme di finanziamento illecito dei partiti democratici: non poteva essere diverso, se si voleva preservare un minimo di competitività reale nella dialettica politica. Non è un caso, del resto, che Mani Pulite ha riguardato fatti circoscritti al periodo che va dall’ottobre 1989 – anno dell’amnistia sui finanziamenti illegali antecedenti, compresi pertanto quelli che provenivano da Mosca – al marzo 1992.

 

L’intero sconvolgimento del sistema politico italiano è stato realizzato utilizzando i fatti di circa trenta mesi. Dopo l’89, anziché riformare il sistema, prevalse un altro tipo di  ragionamento. Visto che il neonato Pds era comunque coinvolto nel sistema di finanziamento in nero dei partiti, si ritenne di non far nulla pensando che ormai si era tutti sulla stessa barca. Fu un errore, perché i dirigenti del Pds erano i più consapevoli del cambiamento epocale intervenuto dopo il crollo dell’Unione Sovietica.

 

Lei afferma che all’inizio di Tangentopoli nel Pds prevaleva una impostazione “difensiva”, solo più avanti trasformatasi in “offensiva”…

 

Nella fase iniziale, il gruppo dirigente del partito post-comunista ha pensato di accendere i riflettori su questa parte sotto il tavolo del funzionamento del sistema politico – vale a dire il finanziamento irregolare – per allontanare e oscurare il vero dato della situazione: la loro sconfitta storica e politica. Si proponevano, in sostanza, di guadagnare un periodo di tempo per sopravvivere.

 

Dopo di che, grazie anche e soprattutto ai nostri errori, si è proceduto con determinazione alla rimozione di ogni ostacolo sulla via della presa del potere. Il primo e più grande degli errori è stato proprio quello di non capire che era in atto una manipolazione politica e di non reagire ad essa. I singoli componenti dello schieramento “vincente”, di quelli cioè che avevano avuto ragione nella storia, invece di reagire in modo coordinato e compatto hanno pensato ciascuno di poterne approfittare a danno dell’altro.

 

Questo ha consentito alla minoranza che aveva messo in moto il meccanismo, nella classica logica degli Orazi contro i Curiazi, di indebolire a tal punto l’assetto della politica allora esistente da poter passare a una logica “offensiva”. Il che avviene nel luglio 1993, vera svolta decisiva…

 

Perché?

 

A luglio 1993 si ha il momento più acuto, con la morte di Cagliari e di Gardini. Inoltre esplode l’affare Sisde sui versamenti in nero ai ministri dell’Interno, che consegna i vertici dello Stato a una certa logica e apre la possibilità della forzante di cui avevano bisogno: vale a dire lo scioglimento delle Camere, il referendum, il cambio della legge elettorale. È quello il momento della manipolazione vera, quella forte che incide sulle cose e fa sì che, pur non disponendo della maggioranza dei consensi, i post-comunisti possono pensare di vincere.

 

Un’altra manipolazione è quella portata avanti dagli stessi magistrati. Tuttavia, nel libro manca ogni riferimento a un fatto che pure è emerso ed è stato evidenziato in varie pubblicazioni (anche straniere), e cioè che all’interno della corporazione in toga vi era chi ragionava in termini di vero e proprio anti-Stato…

 

È un po’ complicato. Come in tutti i settori della società, quando avvengono dei rivolgimenti di questo tipo, convergono oggettivamente motivazioni e ragioni molto diverse. Esisteva certo una quota minoritaria, ma consistente, della magistratura che aveva un approccio ideologico. Basta leggersi il libro di Misiani, Toga rossa… 

 

Non sono mancati, durante gli anni ’70 dell’eversione di estrema sinistra, settori della magistratura ad essa contigui (Soccorso rosso e così via). Ricordiamo pure l’azione di un certo numero di pretori del lavoro. Si trattava di quella parte della magistratura che, per ragioni anche legittime di weltanschaung, propendeva più per una logica da Stato etico che non di Stato di diritto. E lo Stato etico presuppone che per estirpare un presunto male, quello che conta è proprio l’estirpazione e non i mezzi che si usano, mentre nello Stato di diritto vale esattamente l’opposto.

 

Ciò presupporrebbe in loro motivazioni nobili come la lotta contro il male, cosa di cui c’è da dubitare… Comunque lei esclude una costruzione a tavolino delle azioni giudiziarie?

 

Io escludo il complotto, perché il complotto finisce per essere l’altra faccia della medaglia della spiegazione prevalente. Vale a dire che tutto è successo perché la prima Repubblica era la sentina di tutti i vizi e si era governati da una banda di ladri… Una versione altrettanto caricaturale, esagerata e non corrispondente al vero è quella che ritiene si trattò di un complotto. È stato più complesso, anche se sul piano politico attribuisco la responsabilità maggiore al gruppo dirigente post-comunista, perché ai fini della manipolazione è contato l’uso politico che di certe cose si è fatto.

 

I magistrati, settori della magistratura sono stati parte del fenomeno: personalmente, però, non ho mai creduto alla “rivoluzione dei giudici” o al loro complotto. Fra l’altro, solo alcuni settori della magistratura inquirente si sono trovati nella condizione di svolgere un’azione; per il resto la manipolazione fu politica, le responsabilità sono politiche.

 

Individua un rapporto fra quanto è avvenuto nel biennio 1992-93 e il processo di unità europea, intrapreso dopo Maastricht?

 

Quello che è successo in Italia è del tutto legato alla peculiarità italiana. La responsabilità politica principale, come ho detto, è del gruppo dirigente post-comunista. Detto ciò quella situazione, nata per quelle ragioni e con questa “autoctonicità” di fondo, in quanto l’Italia è parte dell’Europa, si è come dire dialettizzata con una situazione più generale. All’indomani di Maastricht andò acuendosi la tensione fra la visione europea e quella statunitense.

 

La moneta unica scaturita dal Trattato ha colto di sorpresa gli USA e ciò è avvenuto perché abbiamo voluto prenderli di sorpresa. Sino al giorno prima di Maastricht gli Americani non si aspettavano che il trattato si sarebbe concluso in quel modo. Fu il risultato di una intesa riservata fra alcuni vertici dell’Europa – soprattutto Kohl e Mitterrand, con Delors e in parte l’Italia, cui toccò la presidenza nel secondo bimestre 1990 – attorno allo scambio marco contro unificazione tedesca.

 

Il che permise, fra l’ottobre e il novembre ’91, di scrivere quella versione del Trattato che prevedeva l’automaticità dell’entrata in vigore della moneta unica, superando la formula negoziata in precedenza secondo la quale – ammesso che si verificassero certe condizioni – all’euro si sarebbe pervenuti solo attraverso una ulteriore decisione dei dodici Paesi. Per di più in due tappe: il gennaio 1997 e, in caso di impossibilità, era prevista un’altra riunione due anni dopo.

 

La formula originaria, insomma, subordinava l’effettivo adempimento della moneta unica a una deliberazione successiva. A fine novembre ’91, invece, il testo cambiò e la formulazione finale adottata poi a Maastricht recitava che il 1° gennaio 1999 sarebbe stata comunque la data di entrata in vigore dell’euro. Non vi sarebbe stata nessun’altra decisione dei Paesi membri, ma occorreva soltanto verificare quante monete sarebbero state in condizione di sostituire sé stesse con la moneta unica.

 

Questo per quanto riguarda Maastricht e i negoziati che lo precedettero. Ma resta il fatto che, di lì a poco e in coincidenza con gli anni di Mani Pulite, si è avuta la sostanziale dismissione del patrimonio pubblico. Viene da chiedersi se esista o meno un nesso fra l’eliminazione di una classe politica e le acquisizioni da parte di talune élites finanziarie…

 

Non c’entra assolutamente nulla. Ogni volta che si seguono sciocchezze di questo tipo, come la storia delle trattative segrete sul battello Britannia e così via, si perde tempo. E lo dico con cognizione di causa. No, ci fu un’altra cosa. Gli Americani, il giorno dopo Maastricht, cominciarono ad approfittare di ogni situazione che potesse condizionare o rallentare il processo avviato. Si può certamente intravedere un’azione “sotto il tavolo” USA volta a complicare la vita dell’euro: già nel ’92 cominciò una campagna stampa sulla moneta unica per spiegare come fosse un errore.

 

C’è una spiegazione, perché la moneta unica appariva come l’ultima tappa dell’unificazione economica, ma in realtà era l’irresistibile avvio dell’unione politica. Nel mondo di oggi, i due strumenti del potere sono le armi e la moneta. Sul piano delle armi gli Stati Uniti non hanno al momento rivali, perché il divario resta incolmabile; non altrettanto può dirsi per quanto riguarda la moneta. Va tenuto presente che nella storia i sistemi finanziari internazionali cambiano i loro comportamenti, a seconda se prevale un regime monometallico o bimetallico.

 

La situazione euro/dollaro come potrebbe andare – perché ancora non è – a delinearsi, comporterebbe di fatto il ritorno a un sistema bimetallico. Fatto questo che non accade da almeno centocinquant’anni, se si pensa che prima la sterlina a cambio oro e poi il dollaro hanno dato luogo invece a un sistema monometallico. È evidente che il suo super

 

mento e l’apertura di una fase bimetallica non piace: non lo possono dire ufficialmente, ma è così. Del resto, volendo, si può anche andare a guardare “sotto il tavolo” per vedere cosa è successo ai firmatari del Trattato di Maastricht: scopriremmo che hanno fatto tutti una brutta fine, sul piano politico. Sarà una coincidenza, ma da Dumas a Kohl, dai ministri italiani a Major hanno tutti avuto dei guai e, di questi, alcuni sono sicuramente riconducibili a una forma di “disattenzione” americana.

 

Un uguale pensiero ricorre a proposito di alcuni dei principali leader dell’Internazionale socialista. È  singolare come dalla scomparsa politica (Schmidt, Gonzalez) o fisica (Palme, Craxi, Mitterrand) di certe personalità, quella organizzazione ha finito per mutare natura…

 

In parte è dovuto a un naturale ricambio generazionale, ma è interessante osservare un altro aspetto che ha riguardato gli anni Novanta. A indagare con precisione quello che è accaduto, si scopre che in moltissime parti del mondo la struttura di potere americana (la Cia) eredita e arruola il grosso della struttura “sotto il tavolo” che aveva messo su l’Unione sovietica.

 

L’esempio più clamoroso è l’Africa: qui tutti quei gruppi, movimenti e cellule eversive che l’URSS aveva mantenuto, sostenuto e usato nei decenni precedenti, trovandosi di colpo senza datore di lavoro, si rivolgono al solo datore di lavoro possibile e cioè gli USA. Ciò ha dato luogo, in Africa, a uno scontro di potere fra Americani ed Europei, o per meglio dire fra Stati Uniti e Francia.

 

Situazione quest’ultima che è, fra l’altro, all’origine dell’inimicizia attuale fra Washington e Parigi. E naturalmente, per dirla con una battuta, l’ultimo pezzo che riciclano sono i post-comunisti italiani. Difatti, l’atteggiamento assunto da D’Alema – primo post-comunista capo del governo italiano – in occasione della guerra in Kosovo è indicativo. Craxi, pur essendo molto più filo-americano, non si sarebbe mai comportato in quel modo né avrebbe partecipato al conflitto in  quelle forme…

 

Per quanto riguarda le ragioni del mutamento di natura dell’Internazionale socialista…

 

Meraviglia che vi interroghiate al riguardo. Qual è oggi il governo più filo-americano in Europa? Il governo polacco. E chi comanda in Polonia? Il leader del partito erede dei comunisti. L’ingresso nell’Internazionale di tutti questi post-comunisti coincide con la sua trasformazione…

 

Stupisce tuttavia che, anche prima di ciò, l’Internazionale socialista non abbia mosso un dito in favore di Craxi …

 

L’Internazionale non è mai intervenuta in questi casi…

 

Ma non ha espresso nemmeno solidarietà: il francese Mauroy che riduce tutto a una “questione giudiziaria”, il disinteresse dimostrato anche dopo per trovare soluzioni diverse da Hammamet…

 

Sì, questo è vero. Ma risponde a logiche di cinismo politico: non si porge la mano a chi cade, perché è una perdita di tempo. È il cinismo tipico delle organizzazioni sovranazionali.

 

All’area liberalsocialista e riformista lei accredita un 25% dell’elettorato. In un recente convegno organizzato dalla nostra rivista a Milano, si è discusso dell’assenza di quest’area nell’attuale scenario caratterizzato dal bipolarismo…

 

Il mio riferimento sono le elezioni del 1992, le ultime prima dell’introduzione del maggioritario. Ebbene, la somma dei voti attribuiti ai partiti laici e socialisti è circa un quarto dei suffragi. L’assenza odierna si spiega col fatto che, non a caso, quest’area è stata la più colpita da Mani Pulite. Assieme ai socialisti i partiti rasi al suolo dalle inchieste, più ancora della Dc, sono stati per l’appunto liberali, repubblicani e socialdemocratici.

 

Personalmente interpreto l’introduzione del maggioritario e del sistema bipolare come un imbroglio “inventato” dai postcomunisti per poter avere il 20% dei voti. Oggi, tutti gli italiani sanno che il bipolarismo è fallito, perché ha reso ingovernabile il Paese. Che vinca uno schieramento o l’altro, nessuno in realtà può governare l’Italia nel senso che non possono affrontarsi in modo adeguato i problemi.

 

Dirò di più. Da tempo siamo oltre la logica dell’alternanza fra moderati e riformisti, perché siamo ormai in una nuova fase storica e sono venute meno le ragioni – sociali e culturali – che nella prima metà del ’900 erano all’origine della differenza. Per di più siamo in Europa e sempre più le vicende politiche nazionali si mescoleranno con quelle europee. E l’Europa è stata sempre governata – e lo sarà ancora di più nei prossimi cinquant’anni – da posizioni di centro: il cosiddetto governo dell’Europa (la Commissione) è sempre stato composto da socialisti, liberali e democristiani.

 

Continuerà ad essere così, anche perché si deve pure conciliare e far convergere i governi nazionali in politiche comuni, le quali hanno un connotato più di destra o di sinistra a seconda degli equilibri fra queste forze. Inevitabilmente, tutte le sciocchezze che sono state dette in questi anni da post-fascisti e post-comunisti contro il centro sono destinate a evaporare.

 

Si trattava di scuse, scuse della storia per spiegare perché ci dovesse essere uno schema in cui post-comunisti e post-fascisti erano decisivi: comprensibile sul piano tattico, ma oramai si è capito che ha poco a che fare con la realtà dei fatti. La parola d’ordine alla quale noi lavoriamo da tre anni – “scomporre/ricomporre” – è quella nella quale si riconosceranno presto gli italiani tutti, una volta accortisi del disastro generato da questo bipolarismo.

 

In questo “scomporre/ricomporre” diventa centrale il ruolo dell’area laico-socialista, perché così come si sta  ricomponendo non tanto un’area cattolica quanto un’area moderata (comprensiva di Forza Italia), quest’ultima dovrà prima o poi – nella logica europea – trovare un punto di compromesso con una forte area riformista per rendere governabile il Paese.

 

L’assenza di quest’area riformista è la principale ragione dell’attuale ingovernabilità e ciò è avvenuto perché i post-comunisti avevano interesse a fare piazza pulita dei socialisti e dei laici. Ci sono riusciti, hanno fatto piazza pulita ma non hanno potuto ammazzare un quarto degli italiani; prima o poi questo quarto di italiani troverà modo di esprimersi.

 

Eppure, la vocazione consociativa all’origine del compromesso storico sembra riaffiorare, quasi si trattasse di una costante della politica italiana…

 

Non è così: il consociativismo o quello che una volta chiamavamo “catto-comunismo” è oggi espressione di una minoranza. La ragione per cui come Nuovo Psi abbiamo scelto di stare dalla parte della Casa delle libertà è perché, inevitabilmente, la conclusione di questa parentesi che ha reso ingovernabile l’Italia deve passare attraverso la crisi irreversibile dei Ds. Devono spaccarsi. Il cosiddetto centro-sinistra dell’Ulivo è stata una sorta di “vascello prigione”, che ha imprigionato costringendoli a stare assieme sulla medesima barca forze tra loro molto diverse.

 

Finché non affonda o si auto-affonda, lasciando liberi i suoi passeggeri di nuotare ciascuno verso la sponda che più aggrada loro, non si renderà funzionale il sistema politico…

 

Il collante che maggiormente li tiene assieme è l’avversione per Berlusconi, per cui forse lo scardinamento dell’alleanza ulivista sarebbe favorito proprio da una eclissi del leader di FI…

 

Da una parte è vero che Berlusconi è l’unico collante sia della maggioranza che dell’opposizione, ma è anche l’unico ostacolo che impedisce a questo tipo di opposizione di riprendere il potere. E se l’Ulivo – così com’è – riprendesse il potere, il vascello non solo non affonderebbe ma si distruggerebbe il Paese. Da questo punto di vista Berlusconi ha svolto e svolge un ruolo decisivo. 

 

Sostengo, invece, che il modo più semplice per squarciare il vascello ulivista è l’emersione di una forza laico-riformista. A quel punto ci sarà un effetto kepleriano che renderà irreversibile il big bang dell’Ulivo. La conseguenza di questo sarà anche probabilmente il superamento di Berlusconi, infatti perciò Berlusconi e D’Alema sono alleati nel mantenere congelata la situazione com’è oggi.

 

Tuttavia, al posto della contrapposizione Est/Ovest c’è un’altra spinta molto forte nel senso  dell’immobilismo: il sistema corporativo italiano che intende preservarsi a ogni costo e certo le riforme non le vuole…

 

Questo è vero, ma non costituisce un collante. Si tratta piuttosto di minoranze di blocco. Prendiamo il caso della riforma delle pensioni: sono convinto, lo dicono anche i sondaggi più avvertiti, che la maggioranza degli italiani è disponibile ad accettare una riforma ragionevole del sistema pensionistico. Per ragioni oggettive, dal momento che prevalgono le preoccupazioni nel caso in cui non si intervenisse.

 

Perché la riforma non si può fare? Perché nell’uno come nell’altro schieramento, minoranze di blocco la impediscono e poiché sia Ulivo sia Casa dellelibertà, privi di queste minoranze, perdono le elezioni, ecco che non si va avanti.

 

E di conseguenza il riformismo va a farsi friggere…

 

È ovvio; per questo è propedeutico “scomporre e ricomporre”. Il riformismo è possibile in Italia soltanto costruendo una coalizione dei simili, che inevitabilmente è una coalizione che sta nel mezzo ed esclude le ali estreme. Per dirla in concreto, ancora per molti decenni l’unico governo possibile sarà un centrosinistra com’era una volta, che naturalmente nel 2003 dovrà comprendere una parte dell’elettorato post-comunista.

 

Ma perché ciò accada è necessario affondare la barca e scomporre le alleanze: nella Margherita, ad esempio, ci sono al tempo stesso settori estremisti, catto-comunisti e giustizialisti, e settori assolutamente riformisti. E lo stesso nei Ds.

 

Come realizzare questa “scomposizione” da un punto di vista pratico, attraverso ad esempio le prossime scadenze elettorali?

 

Ci devono essere degli elementi di novità che scardinano gli equilibri odierni. A mio parere, potrebbe essere tale l’emergere di una forza laico-riformista sufficientemente forte. Oggi, un Franco Debenedetti o l’elettore “quadro” post-comunista non sa dove andare, perché l’attuale schema bipolare congela tutto e li consegna a Bossi da una parte e a Bertinotti, al Correntone o a D’Alema dall’altra.

 

L’unico contributo che si può dare allo scardinamento è appunto la costruzione di un’area di riferimento per i riformisti. Vediamo cosa succederà alle elezioni europee: basterebbe che questa lista laico-socialista o riformista prenda un voto in più della Lega. Sarebbe un segnale. Questo è quello che si può ragionevolmente auspicare, nei limiti dell’azione che io posso svolgere.

 

Alle elezioni europee vige il proporzionale, con il maggioritario è però difficile immaginare di scomporre le alleanze, anche perché il bipolarismo si è consolidato…

 

Sono abbastanza sicuro di quello che succederà. Noi siamo in Europa: o l’Europa collassa ed allora tutte le nostre discussioni perderebbero ogni significato; o l’Europa – seppur con fatica e battute d’arresto – procederà nel senso dell’integrazione politica da realizzarsi magari nell’arco di quinquenni o decenni. L’integrazione funziona con regole oggettive: il sistema va integrandosi nella misura in cui i modi di funzionamento delle singole parti coesistenti vanno convergendo.

 

Questo è successo nei quarant’anni di integrazione economica, quando le economie europee hanno cambiato la loro logica in modo da convergere per cui, alla fine, oggi abbiamo dei sistemi economici molto più simili di quelli che avevamo in passato.

 

Lo stesso avverrà con l’integrazione politica: non si può partecipare ad essa se il funzionamento istituzionale ed organizzativo, il sistema politico nazionale sono divergenti. Chi diverge rimane ai margini o viene espulso. Pertanto, inevitabilmente l’evoluzione politica italiana in futuro assomiglierà a quella europea.

 

I partiti non solo sono inevitabili, ma nell’arco di dieci anni sopravvivranno soltanto i partiti simili alle famiglie politiche europee. E risulterà sempre più chiaro che forze politiche dissimili saranno marginali: ecco perché la Lega non ha futuro e Forza Italia non esiste nella sua forma ibrida…

 

Oltre che le coalizioni, anche un partito come Forza Italia si dovrebbe allora scomporre?

 

Più che scomporsi deve diventare quello che già va delineandosi: la sezione italiana del Ppe. I socialisti che sono in FI dovranno decidere se prevale in loro l’identità socialista o quella democristiana. Sicuramente non possono rimanere in questo equivoco: l’idea di una componente socialista di FI non esiste. È una pura battuta propagandistica, al pari dell’annuncio di Pannella che dichiara di voler farne parte ma Pannella, si sa, è un noto eversore della politica italiana.

 

L’assunzione di cariche da parte di esponenti socialisti (Cicchitto vice-coordinatore) dentro il partito berlusconiano è simile agli incarichi distribuiti dai Ds in occasione della Cosa 2. Quando arriverà il tempo, una volta che saranno evidenti le matrici politiche europee, chi è socialista voterà per i socialisti. Il nostro problema, come Nuovo Psi, l’abbiamo sul fronte del centro-sinistra perché dobbiamo risolvere una contraddizione non piccola: siamo socialisti, pensiamo di poterlo essere sconfiggendo coloro che sono già nell’area in cui noi vogliamo stare.

 

Tant’è che faremo la campagna elettorale europea facendo riferimento al Partito socialista europeo, che non ci vuole perché ha voluto i Ds. Questa è la complicazione: non l’ho inventata io, ma è figlia della peculiarità che cominciò cinquant’anni fa e non nel ’92. Per questo dobbiamo voltare pagina.

 

Paradossalmente il momento più favorevole per il socialismo democratico riformista in Italia è quello attuale. Il socialismo riformista italiano ha sofferto per quarantacinque anni della peculiarità di Yalta: il Psi ne fu la vera vittima. Se volevamo stare dalla parte della libertà e della democrazia, com’era tipico del nostro Dna, dovevamo stare coi moderati e pagare un prezzo sulla nostra vocazione di identità politica riformista; se stavamo con il resto della sinistra e quindi col Pci, diventavamo succubi della non democrazia e non libertà.

 

Per questa contraddizione i socialisti italiani si sono divisi-uniti e Craxi che ha rappresentato il momento più alto del tentativo di andare oltre Yalta alla fine ha pagato con la vita. Ora, che la parentesi si è chiusa dal momento che non si può prolungare una condizione le cui ragioni non esistono più, credo che quasi per un paradosso si presenta a noi l’occasione più favorevole dai tempi di Turati. Non c’è mai stata una situazione così straordinaria per affermare una forza socialista in Italia.

 

Bisogna individuare gli uomini…

 

In genere gli uomini sono figli delle idee e non viceversa.

 

(*) da Quaderni Radicalin. 82 di settembre-ottobre 2003

 

 



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