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18/04/24

Tutti pazzi per gli All Blacks


Categoria: i nostri blog
Pubblicato Venerdì, 16 Novembre 2012 15:36
  • Rugbycale

Non so se vi è mai capitato di incontrare un maori nei pressi del Colosseo: la cosa fa abbastanza impressione, anche in virtù del fatto che il suddetto maori si chiama Ma'a Nonu ed è anche un All Black (che significa, fisicamente parlando, molto molto ma molto grosso). Battute a parte, il clima che si respira a Roma in questi giorni è quello di una città pronta a ricevere gli 80mila del rugby in uno stadio Olimpico tutto esaurito (roba che nemmeno "ar derby"), sintomatico del grande spettacolo che ci si aspetta.  

C'è una frase, piuttosto emblematica, pronunciata ieri dal ct della Nazionale azzurra Jaques Brunel: "La Nuova Zelanda è l’Everest del rugby, noi siamo alpinisti che devono scalare la montagna più difficile senza paura, pronti a sopportare il freddo e le intemperie. Altrimenti è meglio rimanere tranquilli sul Monte Bianco. Andiamo in campo non per subire ma per imporre qualcosa del nostro gioco."

 

Certo, sull'Everest ci sono rimasti secchi in parecchi, ma è pur vero che il nostro rugby non deve più scendere in campo per "contenere" ma per "fronteggiare", concetti tra i quali la differenza sta nella motivazione che ti fa indossare la maglia.

 

Affrontare gli All Blacks è sempre un'emozione: quella marea nera con la felce argentata sul petto (Ponga, in lingua maori) che esegue la spettacolare Haka prima di ogni partita, un rito sacro per i Tutti Neri fin dal tour in Nuovo Galles del Sud, anno domini 1884, farebbe tremare chiunque.

 

Da allora di Haka se ne sono viste molte: nel 2005 i Tutti Neri eseguirono per la prima volta la nuova Kapa o Pango (al posto della classica Ka Mate), "designata a riflettere l'aspetto multiculturale della Nuova Zelanda contemporanea, in particolare l'influenza delle culture polinesiane" e scatenando polemiche fortissime (senza alcun fondamento) relative al gesto conclusivo della danza, interpretato come un taglio della gola (venne poi spiegato che rappresenta il gesto di energia vitale di cuore e polmoni, associato al suono "ha!").

 

Certo, avranno pensato, a ragion veduta, molti: vedere 15 energumeni vestiti di nero, nessuno dei quali al di sotto dei 105kg, agitarsi urlando lanciando segni di sfida ed avendo l'occasione di 80 minuti di botte (sempre sotto rigido regolamento) non può far venire altro desiderio che quello di una calda, accogliente, "tazza" sulla quale sedersi.

 

La consapevolezza del più forte però, in questo sport tanto nobile quanto (certe volte) crudele, non sconfina mai in arroganza: il rispetto dell'avversario è evidente nelle parole del ct Steve Hansen degli All Blacks: "Ci aspettiamo una nuova, difficile gara contro l’Italia di fronte ad un pubblico così appassionato come quello azzurro. L’Italia è famosa per il gioco dei suoi avanti, saranno pronti a dare battaglia e noi dovremo fronteggiare la loro fisicità. Non vedranno l’ora di scendere in campo di fronte allo Stadio Olimpico esaurito, davanti al loro pubblico, e questo darà loro ulteriori motivazioni."

 

Saranno questi, oltre che quelli tecnici, i motivi che hanno spinto Brunel a schierare un XV più esperto di quello che è partito contro Tonga. Tuttavia, c'è sempre da considerare che il bello di giocare contro gli All Blacks è strettamente legato al misurare i propri limiti con uomini che sembra non ne abbiano alcuno. Rendersi poi conto che si possono placcare, che in mischia chiusa forse anche far indietreggiare, spesso e volentieri porta a prestazioni ben al di sopra della media.

 

Per questo motivo Italia-All Blacks sarà una partita certamente divertente. I contorni sportivi, in questa sfida, si mescolano fin quasi a coincidere con i contorni storici, umani e personali che conformano la leggenda dei Tutti Neri (che ha recentemente perso uno dei suoi "pezzi pregiati", il 91enne Bob Scott, il più anziano ancora in vita), Certo, loro sono i più forti di tutti, sono quelli che segnano il risultato finale ancor prima di scendere in campo, ma non sono imbattibili e il rugby è un gioco, prima che uno sport; incollati al televisore o schiacciati tra gli 80mila dell'Olimpico, poco importa: l'importante è sostenere il nostro XV.



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