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29/03/24

Giorgio Pressburger: vita, innovazione e opere di un protagonista discreto della cultura italiana e internazionale


Categoria: CULTURA
Pubblicato Sabato, 07 Gennaio 2017 13:39

A una settimana dalla presentazione a Budapest del suo ultimo film, Il profumo del tempo delle favole, ho incontrato l’autore ungherese nella casa dove vive da trent’anni, tra le colline che circondano il Golfo di Trieste. di Vincenzo Basile

di Vincenzo Basile

 

A una settimana dalla presentazione a Budapest del suo ultimo film, Il profumo del tempo delle favole, ho incontrato l’autore ungherese nella casa dove vive da trent’anni, tra le colline che circondano il Golfo di Trieste.

 


Una domanda ovvia ma forse poco gradita.



Certo, tanto se non voglio poi non le  rispondo.



Se dovesse esprimere un’impressione complessiva sul passato regime socialista in Ungheria cosa le andrebbe di dire?



Le racconto la mia esperienza personale: io venivo da una famiglia di ebrei, molto poveri, perseguitati già prima della fine della seconda guerra mondiale. A diciotto anni, nel ’55 presi la licenza liceale. Ero molto bravo ed avevo degli ottimi voti, pertanto decisi di andare a studiare sia all’Università che all’Accademia di Teatro, quella vicina al Cinema Urania. Fatti entrambi gli esami di ammissione, dagli Istituti mi risposero che ero idoneo ma che non c’erano posti disponibili. Ero un bravissimo studente, può immaginare come presi questa notizia. Allora, nella domanda di ammissione che faceva seguito al superamento degli esami, bisognava menzionare la propria “origine di classe”. Mio padre non aveva mai fatto né il contadino, né l’ operaio.

 

Aveva invece fatto l’autore di enigmistica, il calciatore, l’aiuto fornaio, di tutto insomma; lui era un personaggio molto singolare. Eravamo davvero molto poveri. In un appartamento grande come questa stanza, eravamo in cinque, tre fratelli, padre e madre, senza gabinetto, niente; Non avendo altra scelta fui dunque obbligato a qualificarmi borghese e  così non mi ammisero all’Università. - Faccia parlare il suo registratore a proposito di questo! - E con questo ho già detto tutto. Io non ero un feroce dissidente, uno di quelli che dice “ora gliela faccio vedere io a questi comunisti”. Essendo così povero non potevo dire niente, né pro né contro. Ero però molto colto, avevo letto tanti, tanti libri, sapevo già bene l’inglese, il francese, il tedesco e quindi, quando scoppiò il ’56, insieme a Nicola, il mio fratello gemello, decidemmo di andarcene via. Ero cosi’ amareggiato dalla persecuzione nazista prima e poi da queste vicende che non avevo più voglia di star lì. Ricordo che per la disperazione mi sedetti in un caffè del centro, mangiai una ventina di paste e bevvi del rum. Tanto!

 

Poi, insieme al mio gemello e a nostra sorella venimmo via a bordo di un camion che ci portò fino al confine con l'Austria. Tra mille altre peripezie giungemmo finalmente a Vienna e subito ci presentammo all'ambasciata italiana. Parlavamo un po' la lingua e chiedemmo il visto per l'Italia. Ci arrivammo grazie alla Croce Rossa. Sarebbe cominciata lì una nuova vita. Vivo da 30 anni in Italia. I primi 10, andando su e giù da Budapest e poi in pianta stabile. Infine mi sono stabilito definitivamente qui a Trieste. Gli Italiani mi hanno accolto molto, molto bene. Nessuna forma di discriminazione del tipo questo viene a mangiare il nostro pane, gli italiani non sono razzisti.

 

A Roma poi ebbi tanta fortuna, mi aiutarono degli amici italiani che mi consideravano con benevolenza perché rispetto a tanti miei coetanei avevo letto tanto e poi ero timido, non facevo casini e quindi mi presero a ben volere. Riuscii a iscrivermi all’Accademia d’Arte Drammatica Silvio D’Amico e così potei studiare alcuni anni senza problemi di sussistenza, grazie alla borsa di studio di quella Scuola. Ma finiti i corsi mi ritrovai di nuovo al punto di partenza. Per fortuna mi venne in aiuto uno degli assistenti alla cattedra di Regia che mi segnalò alla televisione. Era Andrea Camilleri. Fu quello l’iniziò della mia carriera. Alla Silvio D’Amico tornai poi come docente dal ’68 al ‘76. Durante quel periodo, per alcuni anni, tenni anche dei corsi all’Università di Lecce nel ’71 e di Roma nel ‘74.



Può farmi il nome di qualche altro docente dell’Accademia in quegli anni?



Tra i colleghi avevo Roberto Herlitzka, Mario Monicelli; io facevo dei corsi ultra-sperimentali tanto che dovevo poi vedermela con quei colleghi che invece preferivano andare sul sicuro: allestii anche alcuni spettacoli che piacquero molto agli studenti.



C’è mai stato nella sua vita o nella sua carriera qualcuno che ha considerato, non dico un modello ma piuttosto diciamo, un punto di riferimento artistico o morale o di qualsiasi altro genere ?



Si, fu un musicista, io lavoravo molto nel campo della musica. Ho fatto regie alla Scala, alla Fenice. Un compositore, si chiamava Bruno Maderna, veneziano. Morì giovane, a 52 anni, fumava tanto poveraccio, era un uomo irrequieto, scherzoso scherzosissimo, si trova in quel mio libro (Storie Umane e Inumane).Lui era il mio modello. Ne parlo con molto affetto, gli volevo bene. Era un grande musicista e compositore, direttore d’orchestra, Don Giovanni e ubriacone della più bell’acqua, era un tipo assolutamente benevolo verso l’umanità, non parlava mai male di nessuno, era conosciuto in tutto il mondo. Ecco lui è stato uno dei miei modelli, io avrei voluto essere come lui. Un pochettino lo sono stato, come lui ma in misura minore della sua. Io poi mi occupavo di letteratura e lui d’altro.

 

Maderna

Avete mai fatto qualcosa insieme?



Come no, alla Rai, lo può trovare negli archivi, si chiama Ages, Le età, è una composizione basata su una battuta di Shakespeare tratta da As you like, dove racconta, sul modello della letteratura latina, non ricordo il poeta, le sette età. Famosissima la battuta “tutto il mondo è un palcoscenico e tutti gli uomini e le donne non sono che attori…” e lui scrisse la musica. Io scomposi le parole del testo originario e le rimontai ma il risultato fu piuttosto commovente ma allo stesso tempo amaro perché descriveva la vecchiaia come un ritorno alla prima infanzia. Beh questo è l’artista il cui modello ho più stimato. Quello che ha combinato in musica lo può trovare sul web, è qualcosa di magnifico. Lavorai con lui e con una altro grande italiano del secolo passato, Luciano Berio.  

 

Berio


E cosa ha fatto con lui?



Ah Ah, con Berio ho fatto una composizione per la radio, praticamente una suite, che si chiama Diario Immaginario e che è tratto dal Malato Immaginario di Moliere. E’ davvero molto interessante. C’è un attore che recita una serie di battute, un violoncello che riproduce tutte le sue intonazioni e infine un’orchestra e il coro che completano la performance. Queste due opere hanno vinto il Premio Italia, che è un premio istituito dalla Rai al quale concorrono però artisti provenienti da tutto il mondo, eh! Quattro volte l’ho vinto io. Due di queste con Maderna (‘72) e con Berio (‘75) e due (’70 e ‘88) con opere scritte interamente da me. Composi poi un lavoro di tre quarti d’ora, Aimez-vous Bach?,  (citando l’Aimez-Vous Brahms della Sagan) per il quale, oltre le musiche, utilizzai come materiale 52 nomi di musicisti della famiglia Bach di varie generazioni.



Cioè, lei manipolava acusticamente i suoni dei nomi dei musicisti, mischiandoli alla musica…?



Utilizzavo lo studio di fonologia della radio, pensi che ho fatto una cosa che ancora oggi ridanno due o tre volte l’anno, dove io lavoravo con la musica elettronica. Ero un po’ un pioniere. Da un quadro di Breugel, si chiama Giochi di Fanciulli, ho tratto un radiodramma, dove non succede niente altro se non il rumore e le voci di un centinaio di bambini che giocano in una grande piazza. Questa grande piazza era ciò che era diventato un grande studio radiofonico, dopo averlo fatto riempire di terra. Mi avevano preso per matto. Si sentivano questi passetti che correvano e dei bimbi che giocavano i giochi che si vedono nei quadro di Peter Bruegel il vecchio.



E tutto l’insieme produceva, immagino, una sua originale e un po’ caotica musicalità?



Si, a parte che ci sono piccoli brani suonati da bambini su strumenti rozzi e improvvisati, la musicalità è data da queste vocine che scandiscono le parole dei vari giochi. Io volli fare uno studio su quel quadro. Andai a Firenze, dove la Casa di Michelangelo era diretta dallo storico dell’arte ungherese Karoly von Tolnai. Questi, dopo aver cambiato nome in Charles de Tolnay, si trasferì da Budapest all’Università di Princeton e da lì, nel 1966, fu chiamato a dirigere il prestigioso istituto fiorentino, dove poi rimase per i successivi 13 anni. Era uno studioso di Michelangelo ma anche di Bruegel e fu lui a darmi le indicazioni più interessanti. Quelle in base alle quali ho potuto costruire questo radiodrammino per bambini.



A proposito di musica e d’Ungheria, una mia personale curiosità: ha mai conosciuto Gyorgy Ligeti o è stato in qualche modo interessato alla sua musica?



Ho messo in scena una sua opera. Eravamo grandi amici. Mi chiese un libretto per una sua composizione ma rifiutai. La mia pigrizia mi aveva dissuaso, ma anche la sua ben nota pignoleria. Non avevo alcuna intenzione di impelagarmi per un tempo indefinibile in quel lavoro. Alla fine accettai comunque la regia di quella che è stata forse la sua opera più grande, Le grand macabre. Lei non può avere idea di come io abbia messo in scena quell’opera. Tutto era talmente movimentato che… alla fine fu un trionfo. Pensi che durante la prima rappresentazione, uno dei tenori del Teatro Comunale di Bologna si alzò e a scena aperta, dal centro della platea gridò: “ Ci vendicheremo! ” Evidentemente era un passatista. Però lo ripeto, fu un grande successo. Lo spettacolo fu replicato per due mesi di fila. Scene e costumi di un grande grafico che avevo fatto invitare io da Parigi , Roland Topor, poi diventato molto noto. Anche con lui eravamo diventati amici, era piccoletto, brutto.

 

Ligeti


Lei è molto apprezzato anche in patria. All’Istituto italiano di Cultura  di Budapest tutti la ricordano ancora per l’importante contributo che ha dato.



Si, l’Istituto l’ho rilanciato moltissimo, adesso non so come funzioni ma ho sentito che una collega, la dott.ssa Vallensise, ex direttrice del Foglio, ha diretto l’Istituto francese duplicandone la dotazione economica con fondi francesi; io a Budapest la quintuplicai; con fondi italiani, tedeschi e ungheresi, stabilìi contatti e collaborazioni con quasi tutti gli istituti stranieri in città, organizzando incontri di rilievo. In quegli anni insegnai anche all’Università di Szeged, aprendo anche lì un Istituto di Italianistica. Non so se è ancora aperto e in funzione oppure no. Mi sono davvero fatto in quattro; è stato forse il periodo più bello e intenso della mia vita. Anche lì sono stato fortunato, sono andato avanti nell’incarico senza pensare agli anni brutti che avevo trascorso lì.



E’ stato impegnativo per lei gestire tutti quei rapporti durante un rimpatrio immagino, emotivamente così travagliato?



Beh, non poi troppo, perché per prima cosa le persone con cui trattavo non erano ancora nate ai tempi dei fatti del ‘56 e poi perché, in quattro anni non ho incontrato una sola persona razzista; se non una ragazza che era in procinto di sposarsi. Ricordo che felicitandomi con lei per il passo che stava per compiere, le chiesi se aveva già preso casa. Lei mi rispose che non lo aveva ancora fatto ma che voleva sbrigarsi perché la sua mamma le aveva raccomandato di far presto …”prima che se le comprassero tutte gli ebrei”. Una sola! Ma non la presi sul serio. Ricordo che le leggi razziali uscirono un anno più tardi in Ungheria rispetto che in Italia.

 

Gli italiani non sono razzisti e nemmeno gli ungheresi. Io ho molta stima degli ungheresi; in generale non li reputo assolutamente dei razzisti, anche se in realtà, c’era una piccola percentuale di essi che lo fu. D’altra parte non potrebbero esserlo perché c’è di tutto tra questo gruppo umano che si chiama Ungheresi: Slovacchi, Russi, Tedeschi… Il razzismo non è scoppiato lì. E’ scoppiato da Mein Kampf; quindi quello che succede adesso e di cui so molto poco, non è che un’eco grottesca di quel passato.



Uno psicoanalista azzarderebbe che il razzismo è il prodotto del bisogno, per alcune persone, di avere un nemico su cui scaricare le proprie ansie, paure, insicurezze.



Si però tutto ciò, trasposto in quegli anni quaranta, fu feroce. Lo racconto nel mio ultimo film Il profumo del tempo delle favole: mia madre poveraccia non sapeva cosa fare, aveva tre bambini piccoli e mio padre era stato deportato in Transilvania a lavorare nelle miniere. E’ stata durissima per entrambi ma sono sopravvissuti anche se lei poi ha sofferto tutta la vita di una forma grave di depressione. E’ morta qui a Trieste dove l’avevo portata negli ultimi mesi della sua vita. A Budapest le erano rimaste solo delle zie anziane, lei 80 anni e loro tra i 90 e i 95, non ce la facevano a trattare questi suoi disturbi. Mi chiedevano spesso di portarla via e così ho fatto. Adesso riposa qui, nel cimitero ebraico dove è sepolto anche mio fratello gemello e dove ho riservato un posto ance per me. Gli ebrei hanno questa usanza.



Non le chiedo se è credente perché si è già espresso chiaramente nel film ma se è praticante.



Beh diciamo… blandamente praticante.



Frequenta lo Shabbat

 

Ogni tanto, non sempre, non sono un fanatico. Ho riflettuto molto sulla religione ebraica, vent’anni fa ho scritto anche quel librettino (“Sulla Fede”), dal quale è tratto in parte il film, che non parla solo di ebraismo ma anche della Fede in generale, cioè del credere in qualcosa della cui esistenza non abbiamo prove. Come diceva Simone Weil, si può amare anche ciò che non esiste. Ci sono tanti scritti su questo argomento tra i quali, adesso, anche il mio.


Posso chiederle a questo punto un’anticipazione sul suo prossimo progetto?

Deve uscire un libro grosso, di 500 pagine, e un altro film.

 

Da quello stesso libro?

No da un altro che si chiama “La Legge degli Spazi Bianchi”, un mio racconto di 25 anni fa. Il libro attuale è diviso per il momento in due volumi ma uscirà intero.

Vuole anticipare qualcosa, almeno sulla trama? Ha un titolo provvisorio?

Si ed è il nome del protagonista ma questo non dice niente del contenuto.

Non sarà un romanzo borghese ovviamente ?

No, come tutti i miei ultimi due romanzi sarà fortemente sperimentale, una storia di incontri immaginari con i personaggi più importanti del ‘900 o, almeno, quelli che io ritengo tali. Ho poi anche una collaborazione con il Corriere della Sera ma sono molto pigro, scrivo solo se ho qualcosa che mi interessi davvero molto.

Beh non si direbbe che è poi così pigro visto quello che ha fatto finora e che continua ancora a produrre. Diciamo che ha la possibilità di scegliere tra molti spunti quelli che la stimolano maggiormente.

Mi ritengo fortunato, baciato in fronte dalla fortuna, per certe cose che sono riuscito a fare nella vita, Il libro uscirà a marzo, tra tre mesi.

E’ già ultimato?  

Si. Adesso l’ho finito ma lo modifico in continuazione; se non lo pubblicano presto diventerà un altro libro. Avvicinandomi agli ottant’anni, mi succede che la mattina, quando faccio il bagno nella vasca, mi vengono in mente delle canzoncine ungheresi che cantavo da bambino. Le traduco in italiano rispettandone il ritmo e fino a quando non finisco di lavorare su ognuna una di esse, rimango li a rimuginare con la memoria.

Ha mai preso in considerazione la possibilità di raccoglierle per inciderle o sceneggiarle, magari insieme con Mario Caputo, il suo regista?

Sa cos’è che ha colpito tanto gli spettatori e i critici dei miei ultimi due film? La mia voce. Non si aspettavano una voce così, non artefatta.

Son d’accordo, è la voce narrante più adatta per introdurre e accompagnare la narrazione filmica mantenendone l’autenticità del vissuto.

Infatti, tutti e due i film puntano proprio sull’autenticità.

Anche qui a Trieste professore, e nella regione che ha scelto, si è dato un bel po’ da fare.

Beh si; a Cividale del Friuli, nell’ambito di una rassegna che ho fondato io una ventina di anni fa e che si chiama Mittelfest, ho allestito in forma di teatro stradale, Danubio, il bel libro di Claudio Magris.Ho chiamato una serie di collaboratori, tra i quali Lorenzo Codelli, con il quale eravamo diventati amici. Partendo da un’idea vaga, molto vaga, e cioè che le strade di una città sono come un fiume dove fluiscono le vie. E così percorrendo le strade di Cividale, gli spettatori seguivano, molti dei quali affacciati alle finestre e ai balconi, gli attori che interpretavano brani del libro. Il pubblico era divenuto il Danubio. Avevo avuto chiaro dall’inizio quest’idea  ma non riuscivo a formularla così chiaramente nella mia testa fino a quando, guardando lo spettacolo mi sono reso poi conto che era giusta. C’erano circa 2000 persone che camminavano, camminavano e sembravano proprio un fiume che scorreva.

 

Immagino e spero siano state fatte delle suggestive riprese di quell’evento.

E invece no, purtroppo, perché tutti i giorni in cui sono state fatte le prove pioveva. Il giorno della manifestazione ci sorprese un sole magnifico. Non ce lo aspettavamo. Ma è rimasto famoso quello spettacolo sa?

Nella sua carriera ha mai incontrato la fotografia come mezzo espressivo?

Beh si, proprio per Danubio ho messo poi su un altro libro di immagini, Microcosmi. E si, ho settantanove anni e mezzo e mi sono immischiato in tante cose nella mia vita; come pochi eh?

Docente universitario in vari Atenei e Accademie, scrittore di romanzi, traduttore, regista di opere liriche, prosa, radio, televisione e tanti altri progetti che sta tuttora conducendo; è più facile scrivere su cosa non ha fatto professore.


Lui, il Professore, ride divertito.

 



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